Hanno vinto le canzoni

13 Febbraio 2014 di Stefano Olivari

Dario Salvatori è uno dei pochi critici e storici della musica a non snobbare Sanremo e il successo commerciale delle canzoni, anzi. Per questo i suoi libri, dallo storico Contro l’industria del rock alle biografie di Elvis e di tanti altri, non danno mai quella sgradevole sensazione di lezioncina ex cathedra. Non fa eccezione l’ultimo da noi acquistato, Il Salvatori 2014 – Il dizionario della canzone (Edizioni Clichy), come formato (1400 pagine…) simile al Mereghetti cinematografico, ma ovviamente con al centro la musica. Scusate, la canzone. Autore e personaggio televisivo conosciutissimo, fin dai tempi del miglior Arbore (L’Altra Domenica e Quelli della notte), Salvatori ha parlato di canzoni anche con Indiscreto.

Signor Salvatori, perché ‘canzone’ e non ‘musica’?

Siamo finalmente tornati alle singole scelte, a tante singole scelte da juke box più o meno digitale. Oggi, come prima degli anni Settanta, ha molto senso parlare di canzoni anche se per motivi diversi. Gli album, prima su vinile e poi su cd, hanno dato troppe fregature agli appassionati di musica. Troppi riempitivi, sfruttando il traino di un nome. Il disco è quindi morto di morte naturale, sia pure accelerata anche da scelte sbagliate della discografia. Sono però rimaste le canzoni, come scrivo nel libro hanno vinto loro. Perché è il pubblico a scegliere quelle che hanno successo nel presente, ma anche quelle che rimangono.

Cos’ha di diverso questo libro da tutti gli altri sulla storia della musica, anche pop?

Intanto questo è un dizionario, con la consapevolezza che anche 12mila canzoni siano un infinitesimo della storia della canzone. Ho quindi fatto delle scelte, tenendo presenti vari parametri sia per quanto riguarda le canzoni italiane che le altre: importanza storica, curiosità da raccontare, gusto personale. Per questo sono andato indietro fino al Settecento napoletano, cercando di rappresentare ogni genere: dall’operetta al reggae, dal rock all’hip hop, eccetera. Non ci sono solo canzoni italiane, americane o inglesi, ma anche australiane o africane. Un altro tipo di libro, su un solo cantante, un solo genere o una sola epoca, sarebbe stato più facile ma ho voluto cercare di essere esaustivo. Non c’è tutto, perché 12mila canzoni sui milioni di canzoni pubblicate non sono certo ‘tutto’, ma di sicuro tutto ciò che mi sembra importante ricordare e salvare. Ad ogni canzone ho quindi dedicato un mini-articolo, evitando troppi schemi.

È subito evidente che accanto alla musica di solito esaltata dalla critica è presente anche quella più popolare, o semplicemente commerciale… dalla sigla di Holly e Benji a Vinicio Capossela, dai Ricchi e Poveri a David Bowie, da Leonard Cohen alla Spice Girls, solo per citare le ultime voci da noi lette. Molto Sanremo e anche cantanti usciti dai talent show…

Amo Sanremo, al Festival ho dedicato tanti articoli e tanto lavoro, non sono certo fra quelli che ne parlano male a prescindere dalla qualità delle canzoni. Lì sono emersi tanti artisti, impossibile trascurare ciò che rappresenta buona parte della nostra storia. I talent show non sono invece nel mio cuore, anche se la televisione è sempre utile per farsi conoscere. Il problema dei talent è che danno un successo effimero, perché lì può vincere anche chi non ha talento, identità, repertorio. Ma soprattutto uno studio televisivo è molto diverso da un palco, continuo a pensare che la musica si faccia su un palco. Detto questo, qualche cantante di valore è uscito anche dai talent ed infatti nel libro è citato.

Oggi la musica vende meno, anche parlando solo di download. Fa eccezione, non solo in Italia, il rap. Che non è amato dalla critica ma che, ad esempio, De Gregori ha di recente paragonato, come capacità di racconto di questi tempi, a ciò che facevano i cantautori negli anni Settanta. Lei cosa pensa del rap e in particolare dei rapper italiani?

I cantautori, nell’accezione che comunemente si dà al termine ‘cantautore’, erano di un livello senz’altro superiore rispetto ai rapper. E lo dico io, che dei cantautori italiani non sono mai stato un grande fan. Troppo malinconici, spesso anche noiosi. Ma almeno facevano musica, mentre il rap è in sostanza una lavagna bianca. Per giudicare le canzoni mi sono sempre attenuto a pochi parametri: linea melodica, armonia, ritmo, sincerità. Nel rap ne mancano almeno due su quattro, quindi per certi versi è ingiudicabile al di là del registrarne il successo. È un genere di rottura, rispetto alla tradizione, ma qualsiasi genere di rottura dopo qualche anno diventa esso stesso tradizione e quindi viene valutato al di fuori del successo nel suo tempo.

Lei parla di generi, dopo avere scritto non pochi libri sul rock e i suoi protagonisti. Non pensa che i critici, ma soprattutto molti ascoltatori, siano prigionieri di una presunta nobiltà del rock? Che ci ricordiamo storicizzato 40 anni fa. Passi per oggi, ma già negli anni Settanta Rolling Stones, Led Zeppelin o Deep Purple venivano considerati venerati maestri…

Non sono d’accordo. Molti di quelli considerati oggi mostri sacri li ho conosciuti o almeno intervistati quando erano giovani e venivano considerati qualcosa di passeggero, senza sostanza. Loro stessi, dagli Stones a tanti altri, si consideravano un fenomeno effimero…

Nel libro c’è ovviamente molta musica italiana. Al di fuori di operazioni promozionali o di nicchia, quali sono i cantanti italiani che davvero hanno o hanno avuto successo all’estero?

Ogni mercato meriterebbe un discorso a parte. Se per successo all’estero intendiamo successo negli Stati Uniti e nel mondo anglofono, allora bisogna dire che oggi solo Bocelli ha un vero successo all’estero a prescindere dalla lingua. Non è certo originale, anzi rientra nella tradizione del tenore italiano che fuori dall’Italia piace molto. Negli Stati Uniti hanno avuto un successo discografico enorme e trasversale Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Tito Schipa, Luciano Pavarotti. Tutti, non ce ne voglia Bocelli, superiori a lui. 

Ma Ramazzotti e la Pausini sono davvero molto conosciuti all’estero. E non solo dagli italiani…

Parlando di Stati Uniti e di mondo anglofono il loro successo è discutibile e inferiore a quello, ad esempio, dei Lacuna Coil. Non a caso compaiono nelle classifiche di musica latina ma non in quelle generali, nonostante sforzi e investimenti. Di sicuro sono artisti di grande successo, ma se parliamo di vendite non sono negli Usa paragonabili ai numeri di Modugno o Carosone. Sono discorsi che fanno arrabbiare molti, anche fra il pubblico che legge di grandissimi successi oltreoceano delle nostre stelle. Pompatissimi erano stati, mi ricordo, i tentativi della PFM, di Lucio Battisti e di altri, ma tutti senza successo. Poi c’è il capitolo delle collaborazioni con artisti famosi, tanto per far girare il nome, ma lì basta pagare. Indubbio invece il successo mondiale di alcuni come autori, penso a Umberto Tozzi.

La canzone ha un futuro?

Assolutamente sì, la canzone ha vinto e gode di buonissima salute. È il disco ad essere morto.

 

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