Infinite, i Deep Purple grandi anche alla fine

1 Giugno 2017 di Stefano Olivari

I Deep Purple sono quasi alla fine, dopo mezzo secolo di grandissimo rock con almeno quattro grandi svolte. Lo sono per motivi di salute, di Ian Gillan e Steve Morse, e non certo perché gli manchino creatività e cose da dire. Non è un caso che Infinite, il ventesimo e probabilmente ultimo album in studio della carriera, sia al tempo stesso un capolavoro che dal giorno dell’uscita, il 7 aprile, ad oggi abbiamo straconsumato (doppio vinile, che però gira a 45 giri), oltre che una sintesi della loro storia fatta però da canzoni realmente nuove e non greatest hits da bolliti.

Un album chiaramente parente del ‘Now what?!’ di quattro anni fa più che dei loro dischi conosciuti anche dai non fan, quelli che vanno dalla svolta hard rock fino a Perfect Strangers, quei dischi che costituiscono la base della messa cantata che sono ormai da decenni i loro concerti (il 27 giugno presenti per la ventinovesima volta). Un disco per molti aspetti definibile prog, degno di quelli del periodo Rod Evans, un disco che sarebbe piaciuto tantissimo a Jon Lord (Don Airey è quasi alla sua altezza, soprattutto quando entra in modalità Hammond) e forse piace a meno a Ritchie Blackmore (Steve Morse è senz’altro diverso, ma ci dà lo stesso emozioni), pieno di citazioni ma sempre lontane dal confine del già sentito, fatta eccezione per una apparentemente improvvisata versione di Roadhouse Blues in omaggio ai Doors.

Nel documentario ‘From here to Infinite’, visto di recente e allegato anche al disco, sono contenute interviste toccanti e si capisce il ruolo centrale di Bob Ezrin, uno di quei produttori in grado di entrare nel merito musicale delle canzoni al di là del ‘funziona, mi arriva’, uno in grado di passare da The Wall a Take my breath away senza alcun problema. In Infinite è evidente il ruolo sempre più marginale di Gillan, con Glover e Paice custodi dell’ortodossia, in un disco che di classico ha sicuramente la distinzione fra i pezzi tirati (nostro preferito Time for Bedlam) e ballate (notevolissima All I Got Is You). In conclusione, un gran disco che dice qualcosa di nuovo in modo vecchio. O forse di vecchio in modo vecchio, ma in fondo cosa importa? Lo fanno bene.

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