Il sogno italiano del signor Liu

6 Febbraio 2019 di Dominique Antognoni

Un ristorante con un’anima non è soltanto i piatti che propone, ma è la vita stessa di chi ci lavora. Per una volta evitiamo descrizioni di piatti, visto che i locali che citeremo hanno avuto recensioni positive su mille giornali, per concentrarci su una storia. Nel 1986 un falegname cinese di 27 anni ottiene un visto turistico per Parigi, fra mille difficoltà. Parte prendendo il treno, la Transiberiana: il viaggio è lungo e faticoso, nella valigia ha solo un paio di scarpe e 100 dollari americani, guadagnati con il sangue: cifra notevole per una Cina ai tempi poverissima e isolatissima. Non si hanno infatti notizie di falegnami diventati ricchi nel paese governato all’epoca dal pur lungimirante Deng Xiaoping. Dopo tanti giorni il ragazzo (ragazzo per i nostri parametri, a 27 anni) arriva nella capitale francese e da lì, con gli ultimissimi soldi rimasti, riesce a continuare fino a Milano.

Nelle prime settimane dorme alla Stazione Centrale, mentre di giorno lava i piatti nel ristorante di un connazionale. Dopo qualche mese di impegno totale ottiene un impiego fisso, in cambio di un tetto e pochi soldi. Sfruttando il suo vecchio lavoro, nelle poche ore libere costruisce e mette a posto i tavoli in legno dei vari locali, non solo cinesi. Pian piano inizia a guadagnare, al punto di portare in Italia anche la moglie. Con i primi risparmi significativi apre un piccolo laboratorio di pelletteria a Pescara: é bravo, si ingrandisce e si trasferisce a Rio Saliceto, un paese di poche migliaia di abitanti in provincia di Reggio Emilia. Nel frattempo nascono i loro tre figli. Il lavoro va molto bene, però la ristorazione lo ossessiona e continua a pensare che possa essere il futuro della sua famiglia. Così torna a Milano e apre Acquario, in via Ravizza, zona di pizzerie (lo è tuttora). Siamo nel 2003. Il locale propone una cucina emiliana, il cuoco è sardo, il pizzaiolo ha origini calabresi. Tutti i tre figli lavorano con lui. Sei anni dopo chiude temporaneamente per fare dei lavori, nel frattempo due dei tre figli vanno per conto loro e ognuno apre un ristorante. Il terzo, il più piccolo, resta qui, in Via Ravizza. Il signore si chiama Liu Xue Zhen, mentre i tre figli sono Claudio, Giulia e Marco, ovvero i proprietari di Iyo, Gong e BA.

Una grande storia, una grande famiglia. Che purtroppo non vedrete mai alle mille trasmissioni televisive pro o contro gli immigrati: un po’ perché devono lavorare e molto perché la loro storia e quella di migliaia di altri cinesi mette in discussione tanti dogmi. Primo fra tutti quello che gli immigrati siano tutti uguali. Non è assolutamente vero: a parità di povertà di partenza c’è chi vuole lavorare, lottare, emergere, arricchirsi onestamente ma c’è anche chi per il solo fatto di essere povero pretende che l’Italia (o la Francia, o la Germania, eccetera) lo mantenga. Un diverso atteggiamento che dipende solo in parte dalle attitudini dei singoli e che è soprattutto un fatto culturale: insomma, i popoli sono diversi.

Quella del signor Liu è a pieno titolo una storia di successo. Pare il classico sogno americano e invece il sogno del signor Liu era tutto italiano. Difficilmente ci commuoviamo, però stavolta ci sta, eccome. Non lo conosciamo di persona, però ci alziamo in piedi e lo applaudiamo, non tanto per la sua determinazione feroce, già di per sé motivo di ammirazione sconfinata, quanto per come ha cresciuto i suoi tre figli. Giulia e Marco li conosciamo bene, lo ‘stellato’ Claudio un po’ meno. I loro ristoranti sono sempre pieni, due coperti in più per un post su Indiscreto non gli spostano niente, noi però siamo di parte e lo ammettiamo: come si fa a non esserlo? Sono persone straordinarie e gestiscono ristoranti formidabili, sono quel tipo di persone che Milano ama e adotta, perché serie, laboriose, umili e di talento. Un discorso che vale anche per chi ha attività più modeste, perché la cultura è tutto.

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