Il sangue di Antuofermo

5 Dicembre 2006 di Roberto Gotta

Il mese scorso, parlando con Michael Lewis del New York Times, Bill Parcells ha rivelato un particolare fino a quel momento sconosciuto del proprio approccio alle partite, ed al football, un particolare che ha a che fare anche con l’Italia, e di cui parleremo tra qualche riga. Parcells ha 65 anni, un soprannome curioso (“Tonno”) che mal si addice al suo carattere ombroso ed ha allenato per la prima volta da head coach nella NFL nel 1983. Nel febbraio del 1987 entrò nella storia dei New York Giants portandoli alla vittoria (39-20) nel Super Bowl XXI del gennaio 1987 contro i Denver Broncos, si ripeté poi nel 1991 nella incertissima partita (SB XXV) contro Buffalo (20-19). Dopo due anni di sosta (e di lavoro televisivo) per motivi di salute, riprese nel 1993 con i New England Patriots, risollevati in tre anni fino ad arrivare al Super Bowl XXXI del 1997 (perso però contro Green Bay). In disaccordo su scelte nel draft con il proprietario Robert Kraft, se ne andò per accettare l’offerta dei New York Jets, ma ottenne il posto solo dopo un compromesso raggiunto tra Jets e Patriots tramite il Commissioner Paul Tagliabue, dal momento che il suo contratto con New England era ancora valido e non lo autorizzava ad allenare altrove anche in caso di dimissioni. Lasciando i Jets nel 1999, dopo avere nuovamente sfiorato il Super Bowl, aveva detto «potete scrivere sulle vostre lavagnette che non allenerò mai più», ma nel 2003 ci aveva ripensato. E’ ancora leggenda l’incontro decisivo tra Jerry Jones, autocratico proprietario dei Cowboys, e Parcells, avvenuto sul jet privato di Jones parcheggiato a lato pista dell’aeroportino di Teterboro, nel New Jersey: nessuno li vide mai, rimasero sul velivolo a parlare e Jones se ne andò solo dopo avere ottenuto l’assenso di Parcells a rimettersi in gioco, per risollevare una squadra che dopo i gloriosi anni Novanta dei tre Super Bowl vinti (XXVII, XXVIII, XXX) era tornata ad una normalità insopportabile per Jones, un tipetto che aderisce alle norme NFL solo quando gli fanno comodo, e per il resto si diletta fare (a 64 anni…) a fare il ribelle. Al quarto anno con Dallas, Parcells è in vista di un traguardo enorme, ovvero la partecipazione al suo quarto Super Bowl con tre squadre diverse. Domenica, vincendo proprio al Giants Stadium, ha portato i Cowboys ad un 8-4 nella NFC East che sa tanto di division quasi assicurata, e non solo: osservando il panorama della NFC, si nota che la capolista di conference fin dal secondo weekend, Chicago, continua ad avere prestazioni irregolari ed inaffidabili dal quarterback Rex Grossman e si regge principalmente sulla meravigliosa difesa guidata dal middle linbacker Brian Urlacher, mentre New Orleans nonostante le continue prove di difficoltà superate (a proposito, domenica 4 touchdown per il nostro amico Reggie Bush e nove passaggi ricevuti per 131 yard, anche se solo 37 yard guadagnate su corsa) è sempre vista con un po’ di scetticismo e Seattle, ecco, Seattle ora che ha riavuto il running back Shaun Alexander può chiudere la regular season con slancio, ma insomma quel che si voleva dire è che i Cowboys non hanno al momento nulla che li faccia ritenere inferiori a qualsiasi altra squadra della NFC. Per portarla a questo punto, dopo una partenza 3-3 e i soliti problemi con il ricevitore Terrell Owens (compreso il clamore per un presunto tentativo di suicidio), Parcells ha compiuto due atti di quelli che richiedono coraggio e non sempre portano frutti: prima ha cambiato il quarterback, sostituendo al veterano Drew Bledsoe l’inesperto Tony Romo (ai Cowboys dal 2004, ma mai utilizzato), poi ha addirittura tagliato il kicker Mike Vanderjagt, sostituendolo con Martin Gramatica. Ebbene, con la bella prova di domenica al Giants Stadium, Romo è ora 5-1 nelle sei partite disputate, mostra polso e sicurezza – anche se il suo primissimo passaggio da titolare NFL venne intercettato, proprio dai Giants nella partita di andata – nonché un atletismo che non si associa normalmente ai quarterback bianchi, e scusate il luogo comune, nel quale peraltro è cascato anche l’ex Cowboy ed attuale commentatore televisivo Michael Irvin, che prima ha detto «Tony non può essere così atleta di natura, mi sa che i suoi nonni si sono ‘dati da fare’ con qualche schiavo o schiava di colore» poi si è scusato per la scemenza detta, ed è già tanto che abbia ancora una scrivania. L’arrivo di Romo fu facilitato nel 2003 da Sean Payton, responsabile dell’attacco dei Cowboys ed attuale head coach dei Saints, che aveva ricevuto una segnalazione sul suo valore dagli allenatori della Eastern Illinois University, ovvero l’università che egli stesso aveva frequentato. Ha carisma, intelligenza tattica e pure un carattere che ci piace molto, testimone vivente di quel che pensava il nonno (sì, quello di cui ha parlato Irvin), trasferitosi negli USA dal Messico, «Ho sempre detto che questa è la terra delle opportunità. Se non hai un lavoro o un’istruzione qui è perché non vuoi, non perché non sia possibile». Tony l’istruzione l’ha avuta, la gavetta ai Cowboys l’ha fatta, il lavoro ce l’ha, e male non sta andando per nulla. Ora, torniamo a lui, Parcells. Che quando si sposta di squadra in squadra porta con sé, oltre ai vestiti, due grandi raccoglitori ad anelli, in cui custodisce fogli, schizzi e documenti, una sorta di ufficio ambulante. Uno di questi fogli racconta una storia che Parcells, appassionatissimo di pugilato, ama raccontare ai suoi giocatori nei momenti in cui la squadra è in difficoltà ed ha bisogno di una scossa. E’ un aneddoto della storia sportiva di Vito Antuofermo, il pugile italoamericano nato a Bari ma cresciuto a New York, che non è esagerato dire abbia lasciato ad un’intera generazione un vivo ricordo di coraggio e tenacia. Quando combattè contro Cyclone Hart nel 1978, Antuofermo, più cuore che tecnica, più coraggio che stile, subì colpi tremendi nei primi quattro round, divenne presto un ritratto al sangue, vacillò, fu sul punto di crollare. Ma non crollò. Ripresosi, o perlomeno rimasto in piedi, ebbe poi la meglio nel quinto round, atterrando Hart, e vinse l’incontro. Nello spogliatoio, vincitore e sconfitto erano a poca distanza l’uno dall’altro, separati solamente da una tenda tesa attraverso la quale filtravano le parole del massaggiatore e dei secondi. Hart sentì Antuofermo: «Ogni volta che mi colpiva con quel gancio sinistro alla figura ero sicuro che non ce l’avrei fatta. Dopo il secondo round, ho pensato che al primo altro colpo sarei crollato. E la stessa cosa l’ho pensata dopo il quarto. Poi però non mi ha più colpito». Hart si mise a piangere, secondo il racconto fatto a Parcells da Teddy Atlas, allenatore di boxe che quel giorno era presente. Pianse perché si rese conto che Antuofermo non era di granito ed anzi era stato sul punto di sbriciolarsi, ma aveva semplicemente tenuto duro sul piano psicologico, ed aveva vinto proprio per quello. Domenica, nell’attesissima sfida tra Giants e Cowboys al Giants Stadium, Parcells deve avere pensato ad Antuofermo quando Martin Gramatica ha infilato al posto giusto il calcio da tre punti della vittoria, 23-20, dalla distanza di 46 yard: per tutti i 60’ di gara Giants e Cowboys si erano scambiati colpi alternati, senza che mai ci fosse più di un touchdown di differenza tra le due, ed alla fine aveva vinto chi aveva mostrato i nervi più saldi, l’atteggiamento più vincente nel profondo. Certo, verrebbe da chiedersi cosa sarebbe successo se invece che i Giants i Cowboys avessero affrontato i Jets: il coach di questi ultimi, infatti, Ray Mangini, è un fanatico di pugilato ed ogni sabato sera, prima della partita, mostra ai suoi giocatori il video di un combattimento. Prima della partita del 19 novembre contro Chicago, Mangini fece arrivare all’hotel un vecchio allenatore di boxe, e gli fece raccontare con le sue parole le immagini del combattimento che aveva scelto per quell’occasione. Indovinato? Esatto: il trainer era Teddy Atlas, e l’incontro era Antuofermo-Hart, 1978.

Roberto Gotta
chacmool@iol.it

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