Cinema
Il riformista Redford
Stefano Olivari 14/01/2013
In quanti film Robert Redford fa il democratico tormentato? Meno di quelli che si penserebbero come attore (il personaggio più azzeccato è in questo senso il direttore del carcere Brubaker), di fatto uno solo come regista (il professor Malley in Leoni per Agnelli) prima di questo La regola del silenzio (titolo originale The Company you keep) in cui ha un po’ rovinato un’ottima intuizione (il conflitto fra la violenza ‘onesta’ del massimalismo e l’ipocrisia ‘giusta’ del riformismo, analizzato attraverso le vite post-terrorismo di un gruppo di ex attivisti contro la guerra in Vietnam) con uno schema da manuale hollywodiano alla pagina ‘Passato che ritorna’, in cui ogni tessera del mosaico va al suo posto. La parte migliore è quindi quella delle domande, con la massimalista interpretata da Julie Christie (forever la Lara del dottor Zivago) e il riformista ovviamente da un Redford in ottima forma rapportando il tutto ai suoi 76 anni e passa, unita alla creazione di personaggi non tagliati con l’accetta. Fra l’altro sia la Christie che Redford sono liberal, nell’accezione americana (anche se la Christie è britannica) veri, impegnati in molteplici cause, quindi molto credibili nella parte. Non male il giornalista interpretato da Shia LeBoeuf (carriera già clamorosa, sia da attore-bambino che da adulto, ma per noi forever genero di Gordon Gekko nel seguito di Wall Street), che Redford usa come movimentatore di situazioni, centrati Susan Sarandon e un irriconoscibile Nick Nolte, qualche falla nella trama (l’età della figlia adottiva di Osborne è assurda, va all’università quando dovrebbe avere quasi quaranta anni) e interessanti le riflessioni messe in bocca a questo o a quel personaggio, in modo che non ci sia un ‘buono’ dichiarato per cui tifi di sicuro il 100% degli spettatori. Film molto americano non negli effetti speciali, che non ci sono, nella trama che è ben diversa da quella tipica per il pubblico che fa la differenza al botteghino (gli adolescenti) o nel genere (purtroppo è collocato da molti nel file ‘Thriller’), ma nel senso di responsabilità individuale che unisce persone dalle idee e dai ruoli diversi. Nessuno, da chi 40 anni prima ha ucciso una guardia giurata nel corso di una rapina ad una banca all’FBI che non ha mai archiviato il caso passando per il giornalista che all’epoca dei fatti non era nemmeno nato e a chi nella vicenda viene tirato dentro per i capelli, pensa che sia giusto lo scurdammoce o’ passato, anche se il tempo ovviamente cambia le persone. Siamo insomma molto lontani, umanamente, da Toni Negri o Cesare Battisti. Film da quattro stelle, ma non a cinque punte.