Il popolo americano contro LeBron James

29 Ottobre 2013 di Stefano Olivari

Nessun fuoriclasse nella storia della NBA è stato più detestato di LeBron James, che stasera contro i Chicago Bulls apre la sua caccia al terzo titolo NBA consecutivo prima di un possibile addio agli Heat e a quella Miami dove peraltro si trova benissimo e che nei giorni scorsi ha omaggiato attraverso uno spot della Nike della cui sceneggiatura è stato ispiratore. Nel video c’è The Chosen One (‘Il Prescelto’) che gira in bici per le strade della città, nuota, corre, gioca a pallacanestro all’aperto. Insomma, un James sereno come tutti quelli che non hanno più qualcosa da dimostrare. Ma allora perché James non è entrato nel cuore dell’America profonda, quella che si inchina di fronte alla statua di Michael Jordan (e anche davanti a MJ in persona) o segue minuto per minuto il reality Kobe Bryant-Los Angeles Lakers?

Escludendo questioni razziali-razzistiche, dal momento che almeno l’80% dei più forti ha la pelle nera, rimarrebbero quelle private e politiche. Sul primo fronte James è blindato: vive da oltre 10 anni (ne compirà 29 il prossimo 30 dicembre) con Savannah, la fidanzata del liceo, che ha sposato lo scorso 14 settembre con una cerimonia relativamente sobria. Ha due figli e nessun gossip intorno se non quelli causati dall’ingombrante madre Gloria. Sul secondo, consigliato dai suoi mille sponsor (McDonald’s, Nike, Coca Cola, Samsung, Audemars Piguet, per citare solo quelli noti anche fuori dagli Stati Uniti), ha sempre evitato di sbilanciarsi: una superficiale simpatia per Obama, qualche donazione benefica ben pubblicizzata, molti tweet di solidarietà a costo zero per buone cause. E allora cosa c’è che non va in quello che forse sarà ricordato come il più forte giocatore di tutti i tempi? A meno che non salti fuori qualcuno in grado di essere decisivo in cinque ruoli diversi…

Se vogliamo metterla sul razionale, gran parte degli hater (‘odiatori’) sono diventati tali dall’estate 2010, quella della famigerata ‘Decision’: LBJ comunicò in diretta televisiva al mondo e soprattutto ai Cleveland Cavaliers la sua scelta di andare a vincere qualcosa a Miami con altre stelle invece di sognare l’anello trascinando una squadra di gregari (missione che quasi aveva compiuto nel 2007, quando i Cavs persero in finale con i San Antonio Spurs). Scelta legittima, ma comunicata male e soprattutto ritenuta poco dignitosa per un fuoriclasse. Non a caso fino a quando non ha vinto il primo titolo NBA in molte arene gli hanno gridato ‘Scottie Pippen’ a mo’ di insulto e ancora adesso qualche ironia del genere la si sente. Come a dire: Pippen per vincere aveva bisogno di Jordan e tu hai bisogno di Wade.

Ma se invece vogliamo metterla sull’irrazionale, diciamo che LeBron in certe fasi di gioco è così superiore al resto del gruppo che le sue imprese sembrano quasi un qualcosa di dovuto e prive di una drammaticità che in realtà avrebbero in abbondanza (si pensi alla serie finale con gli Spurs dell’anno scorso). Questo modo di pensare è arrivato al punto di negare l’evidenza statistica, in un paese in cui le statistiche sono sacre: nel sentire comune Kobe Bryant è un clutch player (cioè un giocatore da momenti importanti) e LeBron James uno che nei minuti decisivi ha paura, ma le percentuali di tiro (statistiche Espn) in carriera nei 24 secondi finali dei quarti quarti o dei tempi supplementari di partite di playoff dicono che James ha il 41,2 % e Bryant soltanto il 25. (Jordan il 50…). Vero è che molti colleghi non amano James, un po’ per la sua onnipresenza mediatica e un po’ perché troppo tutelato dagli arbitri: la fama di flopper (cascatore) non è totalmente usurpata, anche se è figlia del metro di giudizio degli ultimi anni di cui beneficiano anche altri.

Gli Heat rimangono favoriti: hanno perso un tiratore come Miller e guadagnato due grandi scommesse come Oden e Beasley, ma nel basket senza domani dei playoff sembrano ancora i più attrezzati. Con Wade in condizioni almeno decenti, da aprile in avanti, sul terzo anello consecutivo (per Wade sarebbe il quarto totale) si può scommettere. Arrivato a metà del percorso di Michael Jordan (6 titoli con i Bulls degli anni Novanta), James dovrà poi chiedersi cosa fare per conquistare il cuore dell’America visto che avrà facoltà di uscire dal contratto (19 milioni di dollari l’anno, circa un quarto delle sue entrate totali). La scelta migliore, dal punto di vista del marketing personale, sarebbe quella di tornare a casa e provare a vincere con i Cavs pieni di talento giovane: da Irving a Bennett, da Tyler Zeller a Tristan Thompson, con il ‘suo’ Mike Brown di nuovo in panchina dopo essersi bruciato ai Lakers e Bynum come biglietto della lotteria, le condizioni di partenza sono molto migliori rispetto a qualche anno fa. Ma LeBron potrebbe sorprendere ancora.

(pubblicato su ‘Il Giornale del Popolo’ di martedì 29 ottobre 2013)

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