Il penultimo urrah di Brett Favre

12 Dicembre 2006 di Roberto Gotta

Ora di ritirarsi, forse. Ma più per preservare la memoria di anni splendidi che per un declino completo. Si parla qui di Brett Favre, 37 anni, quarterback dei Green Bay Packers dal 1992, quando cedendolo per una prima scelta gli Atlanta Falcons ritennero di poter fare a meno di un ragazzo del Sud che nel Sud avrebbe volentieri continuato a giocare. Ora, giusto dieci anni fa Favre portava i Packers alla vittoria nel Super Bowl, con il trionfo 35-21 sui New England Patriots (Mvp fu però Desmond Howard, che in un momento cruciale riportò in touchdown un kick-off). Non si è più ripetuto, ed anzi negli ultimi anni Green Bay ha preso la via di un declino costante: probabilmente anche stavolta, come nel 2005, i Packers termineranno con più sconfitte che vittorie, ed in generale l’idea è che la franchigia abbia di fronte a se un lungo cammino per tornare ai vertici. In tutto questo, che fa Favre? Va avanti. Il problema è che a volte è parso che lo facesse a dispetto della propria forma e di se, insomma che avesse preso la pericolosissima china di chi per amore dello sport o di se stesso rifiuta di accorgersi che il suo momento è ormai passato. Da due estati ci si chiede se si ritirerà, e se lo chiede pure lui, poi prevale la passione, che peraltro trova durissimo ostacolo in partite nelle quali si fa presto a capire che i bei tempi sono andati e che al massimo si lotta per chiudere con il 50% di vittorie, altro che playoff e Super Bowl. Ma in certi momenti l’entusiasmo di Favre, un vero guerriero come pochi altri Qb della NFL, è così alto che viene l’idea che non si ritirerà mai, almeno non finché qualcuno non lo porterà di peso fuori dal campo. Domenica ci è capitato di vedere 49ers-Packers (risultato 19-30), e ancora una volta le prospettive si sono fatte confuse, sulla necessità di un ritiro o meno di Favre (e peraltro sono fattacci suoi). Favre ha infatti giocato una partita impeccabile, approfittando in maniera spietata e grandiosa degli errori difensivi di San Francisco e sparando alcuni di quei lanci che lo hanno reso indimenticabile. Nel primo quarto, su un secondo tentativo e sette dalle 36 di SF, l’intera linea di attacco ed i due running back lo hanno assecondato in una splendida finta di corsa a destra, Favre è uscito in roll-out (girando in pratica sul piede perno ed invertendo la direzione originaria) verso sinistra e con perfetta coordinazione ha trovato tutto solo Rovell Martin – i 49ers avevano bevuto la finta – che ha raccolto ed è andato dentro per un TD da 36 yards. Più avanti, ha sbagliato un paio di passaggi corti obiettivamente facili, ed in una occasione, con palla sulla 1 yard e sempre in roll-out (ma verso destra) dopo una finta di corsa centrale, non se l’è sentita di buttarsi dentro ma ha atteso per un passaggio ad Ahman Green finito però incompleto: facile pensare che il Favre nel pieno delle sue forze sarebbe andato dentro come un missile, rischiando l’incolumità come ha spesso fatto, per l’ammirazione di chi lo ha sempre ritenuto – sapete, il mondo del football ha una mentalità macho che non si schioda da certi stereotipi – più un vero giocatore di football che un Qb, ovvero uno che si butta, non si tira indietro, accetta il contatto fisico e quando c’è anche da fare un blocco lo fa senza assomigliare ad uno che sia capitato in campo per caso. Però pochi minuti dopo questa esibizione di incertezza ha richiamato le vecchie doti: su un secondo tentativo e dieci dalle 32 difensive Donald Driver, che era partito da destra convergendo al centro (non vi tediamo con i nomi delle traiettorie…) ha improvvisato, tagliando poi all’esterno perché si era accorto che là sarebbe nata un’opportunità, e Favre lo ha trovato con un lancio perfetto, raccolto e portato in end zone. Touchdown. Per festeggiare, poi, Brett s’è fatto al galoppo 70 yards con una rapidità ed un’energia che hanno rivalutato l’idea che la sua mente, prima ancora che il suo fisico (una corsa di 50 yards la può fare chiunque, anche a 40 anni… il problema è come recupera), sia ancora in grado di tirare avanti, come si diceva. Ci rincresce quasi aggiungere statistiche, che come certi dati ‘curiosi’ vengono spesso usate dai poveri di argomenti per decorare articoli altrimenti poco sapidi, ma ecco: è a 4899 yards dal record assoluto di Dan Marino di yards lanciate (61.361), a sette touchdown lanciati dal record, sempre di Marino (420), a cinque vittorie come Qb titolare dal primato di John Elway (148), a 36 da quello per partenze da titolare consecutive (233). E’, ahilui, anche terzo nella storia NFL per intercetti subiti, 267, a sole dieci di distanza dal primatista George Blanda (uno che tra AFL ed NFL ha giocato 26 anni…) e a -1 da John Hadl, questo perché il suo stile di gioco rischioso lo ha portato spessissimo ad andare sopra le righe con lanci a giocatori in doppia copertura difensiva o confidando semplicemente che il suo braccio potesse fare qualunque cosa. E’ ancora convinto che sia così, nonostante i mille acciacchi, il peso di lanciare per anni nel freddo ed al vento di Green Bay (il che rende ancora più impressionanti certe sue imprese), l’altalenante valore complessivo dei compagni di squadra e delle linee d’attacco che ha avuto e la voglia di godersi la vita andando a caccia e pesca nel suo ruvidissimo Mississippi, dove lo scorso anno ha però perduto la casa di famiglia a causa dell’uragano Katrina e dove è tornato, anche per pochi giorni, ogni volta che doveva smaltire una delle tante brutte notizie che ha ricevuto: la morte del simpaticissimo padre Irvin, che aveva ribattezzato con il proprio nome la via in cui abitava ”perché tanto qui c’è solo la mia casa”, per attacco cardiaco, quella del cognato capottatosi con una moto a quattro ruote proprio nel ranch di Brett, la malattia della moglie Deanna e della madre Bonita. 5th down – Fantastico lo sprint di 39 yards di Vince Young con il quale l’ormai titolare (dall’1 ottobre) Qb rookie dei Tennessee Titans, 23 anni, ha dato la vittoria ai suoi nel tempo supplementare contro Houston. Fantastico per molte ragioni: il controllo di corpo e la velocità di Young, la reattività che gli ha permesso, una volta verificato che i Texans avevano buttato tutti contro di lui in blitz – si era sul terzo tentativo e 14 yards da guadagnare – e che i ricevitori erano coperti, di partire, con l’aiuto di un paio di grandi blocchi degli stessi ricevitori. E il ‘piccolo’ particolare che Young è di Houston e dopo avere guidato la University of Texas al titolo nazionale lo scorso anno nel Rose Bowl vinto contro Southern California si era sentito messo da parte nel draft, scelto ‘solo’ come numero tre, tra l’altro con il contorno di voci maligne che parlavano di un suo risultato molto modesto nei test attitudinali e di intelligenza svolti alla celebre e famigerata NFL Scouting Combine di fine febbraio ad Indianapolis, un vero e proprio mercato della carne. Ora, di prima scelta assoluta, per definizione, ce n’è… una sola, e la fila di quelli che si lamentano o ritengono di non essere stati rispettati (respect, parola chiave nella mentalità di molti atleti…) è lunga fin là; in più, il giudizio finale sulla bontà di un draft non è mai saggio darlo nella prima annata, ma dopo 2-3 stagioni, perché i processi di maturazione dei vari giocatori possono essere diversi e quel che ora pare lapalissiano può stravolgersi in breve tempo. Ma è chiaro che Young, con quella grande corsa e la brillantezza con cui ha gestito esultanza e dichiarazioni (”Ho corso come se mia mamma mi stesse inseguendo con la cinghia”), ha momentaneamente fatto rimpiangere ai Texans di non avere puntato su di lui – del resto hanno David Carr, scelto nel 2002 alla nascita della squadra ed evidentemente ritenuto ancora meritevole di non avere concorrenti di alto profilo – come del resto cerca sempre di dimostrare un altro giocatore, di cui American Bowl si è già occupato. Ovvero Reggie… – … Bush. STREPITOSO il touchdown da 61 yards che ha segnato ai Cowboys. Era, semplicemente, Bush per come è da sempre: ricevendo palla non da fermo ma in movimento, con un minimo di spazio davanti per ac

celerare, non si è impantanato come a volte fa dalla linea di scrimmage, quando le sue danze nel backfield (la porzione di campo dietro la linea offensiva) rischiano anche di fargli perdere yards, ma è partito sparato, sgusciando, evitando, eludendo, con la perla del taglio finale verso destra che lo ha portato direttamente in end zone schivando gli ultimi due difensori dei Cowboys, peraltro mal posizionati sul campo e di equilibrio. Qui di seguito leggete altro sui Saints, ma dopo i quattro touchdown della settimana precedente Bush ha dato nuovamente miccia alla dinamite che ha in corpo, e sta diventando poco alla volta il tipo di giocatore che esalta persino i tifosi avversari. Del resto, anche Young, mentre entrava in end zone a Houston, ha visto che sugli spali esultava anche gente con la maglia dei Texans, per l’esaltazione del momento. – I Saints, appunto. Domenica notte la brillantezza e la vivacità dei loro schemi offensivi ha permesso anche agli osservatori più provati di resistere in piedi fino alle 5 del mattino. Semplicemente, non ci si poteva mai rilassare un attimo perchè non si sapeva cosa ci si sarebbe persi. Sean Payton, il coach 43enne, e l’offensive coordinator Doug Marrone hanno fatto a pezzi la difesa dei Cowboys, tutt’altro che scarsa, proponendo quasi di continui soluzioni inattese, sorprendenti, inedite, come ad esempio la scelta di dare fiducia in prossimità della end zone al fullback Mike Karney, uno che in un roster con Deuce McAllister e Bush non può fare altro che il lavoro di base, ovvero aprire loro la strada con dei blocchi. Ebbene, domenica Karney ha segnato tre touchdown, tutti splendidi dal punto di vista dell’analisi tattica: nei primi due neppure è stato toccato dai difensori dei Cowboys se non a babbo morto, tale è stata la brillantezza degli schemi chiamati. Per non dire del fantastico lancio di Drew Brees (a proposito di statistiche… 384 yards lanciate contro Dallas, 4033 finora, 66.4% di passaggi completati) a Devery Henderson per 50 yards di guadagno dopo finta di corsa centrale per McAllister – e qui una difesa non può non abboccare – e immediata finta di hand-off (il passaggio alla mano) per Bush che si era mosso da destra verso sinistra come per ricevere palla per un reverse, e anche qui dopo quel che il giocatore numero 25 aveva fatto la difesa certamente ha dovuto ragionarci una frazione di secondo. Brees nel lancio di 42 yards culminato nel TD sempre di Henderson ha avuto grande collaborazione dal ricevitore, che era pur sempre in doppia copertura, ma quel che si evince dall’osservazione dei Saints è che sono forse all’apice stagionale di rendimento, fiducia in se ed esecuzione dei giochi offensivi, e chi ha visto la partita di domenica non può essere rimasto ammirato, se non quasi turbato, dalla perfezione delle scelte, delle chiamate, delle decisioni dei coach e dei giocatori in campo. Il che non vuol dire che ora i Saints non perderanno più, ma insomma… – Gli Indianapolis Colts hanno perso per la seconda settimana consecutiva (e terza nelle ultime quattro), 44-17 contro Jacksonville. Peyton Manning fila come sempre (25/50 per 313 yards, zero TD ed un intercetto, tanti lanci perché Indy doveva recuperare in fretta), ma il problema è quando la palla l’hanno gli altri: già si sapeva che la difesa dei Colts contro le corse non è granché, ma domenica la situazione si è fatta imbarazzante. La prima corsa dei Jaguars, di Fred Jones, è stata di 76 yards; la seconda, di Maurice Jones-Drew, di 18, e chiusa in touchdown. All’intervallo Indy aveva concesso 249 yards su corsa, e alla fine il totale è stato di 375, il secondo peggiore per una difesa della NFL dal 1970. Ah, dimenticavamo: in settimana, viste le lacune evidenziate nella gara precedente persa con i Titans, i responsabili di reparto avevano fatto svolgere un lavoro specifico per rinfrescare la tecnica di placcaggio e la copertura dei ‘buchi’ in linea. E’ servito a molto…

Roberto Gotta
chacmool@iol.it

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