Il penultimo home run di Super Joe McEwing

5 Agosto 2011 di Daniele Vecchi

di Daniele Vecchi
La “Wendy’s Offer”, presso la catena di fast food americana Wendy’s, consisteva nel presentarsi al botteghino dello Shea Stadium a Flushing, Queens, NY nelle partite indicate come “arancio” nella schedule annuale, ed avere due biglietti al prezzo di uno. Ovviamente le partite arancio erano le meno costose della stagione, e altrettanto ovviamente erano anche le meno interessanti della stagione, quelle che incidentalmente avrebbero fatto in modo che il gigantesco Shea Stadium sembrasse ancora più vuoto di quanto di solito sembrava.

I Mets del 2004 non erano di certo una squadra di vertice nonostante l’impressionante payroll di oltre 100 milioni di dollari, le polemiche sui giornali erano massime, e anche se si era solo a maggio si vedeva lontano un milione di chilometri che quei Mets non sarebbero mai riusciti a fare la post-season, essendo peraltro nel DNA dei blu-arancio il proverbiale tracollo tra la seconda metà di agosto e il mese di settembre, da sempre i più disastrosi nella storia delle stagioni della franchigia del Queens. A quel tempo i siti più gettonati nei forum e nelle discussioni tra tifosi erano www.firearthowe.com e www.sellthemets.com, siti “dedicati” all’allora manager Art Howe e alla dirigenza Wilpon, sito quest’ultimo ancora attivo (per quanto non molto frequentato) dopo tanti anni, ovviamente perchè la famiglia Wilpon ha ancora in mano le (precarie) redini dei Mets.
Tornando a quel maggio 2004, il motto sempre è stato e sempre sarà “sia che vinca sia che perda…”, quindi. purtroppo anche in base a disponibilità monetarie ristrette, ogni volta che potevo ero presente allo Shea, o al mercoledì, quando il “Pepsi Picnic Area”, ovvero i bleachers in fondo agli esterni, era gratuito, o tutte le volte in cui c’era una offerta tipo Wendy, o più semplicemente TUTTE le partite casalinghe dei Mets che riuscivo a vedere dalla scalinata della subway 7 Viola, da dove si vedeva monte di lancio, casa base e terza base. Io c’ero, a prescindere. Proprio su quelle scale conobbi una persona che diventò uno dei miei filosofi preferiti, un anziano signore che anche lui assisteva (da oltre trent’anni, diceva) alle partite dei Mets da quella scalinata, e che mi disse le fatidiche parole “a way of life, love the Mets hate the Cards”, proprio durante una partita contro i Cardinals, veri nemici giurati dei Mets anche più degli Yankees, anche più dei Phillies.
La Wendy’s Offer venne buona per quel 7 maggio contro i Milwaukee Brewers, e assieme ad un amico di Ferrara venutomi a trovare a New York, ci recammo nel quasi deserto Shea.
Partita e Mets ancora una volta inguardabili, 4 punti concessi nel terzo inning, con Lyle Overbay, Craig Counsell e Scott Podsednik (però, che squadra quei Brewers!) mattatori, segnali di speranza nel sesto con Mike Piazza e il vecchietto factotum Todd Zeile (ritiratosi poi alla fine di quella stagione, dopo -secondo noi- aver assurdamente giocato anche una partita nel ruolo di lanciatore! Una presa in giro per i tifosi che ancora credono allo schieramento in campo dei migliori giocatori disponibili in ogni ruolo) che portano i Mets sul 2-4, poi ancora il tracollo nel settimo ottavo e nono, con il risultato che si fissa sul 7-2 per i birraioli del Wisconsin.
Quando ormai lo Shea è quasi totalmente vuoto, al piatto arriva Joe McEwing, e pur essendoci uomini sulle basi, nessuno ha speranze.
McEwing era un cuor di leone, versatile difensore che ha giocato in quella stagione in tutte le posizioni di infielder, nonchè anche in esterno destro. Sempre sorridente, sempre carino e gentile con i tifosi, sempre prodigo di saluti, palle regalate e high five dispensati a tutti, un uomo positivo e sempre pronto a sacrificarsi per la squadra, ed era una specie di idolo “simbolico” dei tifosi. Quandi dai bleachers si alzava il coro “Su-Per-Joe! Su-Per-Joe!!”, il suo saluto era sempre caloroso, carico ed entusiasta (almeno non baciava la maglia, queste finte sceneggiate sono per altri tipi di personaggi). Peccato che al piatto fosse evidentemente limitato (per gli standard della Major League, ovviamente), le sue medie difficilmente superavano i 250. Fu così che di fronte a qualche centinaia di increduli oltranzisti tra cui noi, SuperJoe (così era soprannominato per la sua attitudine di lavoratore), con due out nella parte bassa del nono inning scaraventò la palla fuori dalle recinzioni sull’esterno sinistro, portando la partita sul 5-7, dando qualche minuto di residuo entusiasmo ai survivors rimasti sugli scomodi seggiolini rossi dello Shea.
La storia poi emise le sue sentenze spietate, i Brewers vinsero quella partita 7-5, SuperJoe continuò la sua stagione tra alti difensivi e bassi offensivi
fino al 19 agosto, dove al Coors Field di Denver si ruppe il pèrone, finendo così la propria stagione, ritornando ancora in Major League con i Kansas City Royals nel 2005, collezionando un solo home run, l’ultimo della sua carriera di Major League prima del ritiro. Ma per noi, quel sussulto effimero e inutile di quella palla battuta fuori dal diamante del Queens, rimane non solo un momento di sport, di speranza, di adrenalina, di entusiasmo, di malinconia, ma anche un momento di cui gioire comunque, a prescindere dai fatti accaduti prima e dopo quei cento secondi di strano, inutile, incredulo e intimo pandemonio pubblico. Un momento come tanti nella storia dello sport, una storia di sport ordinario, senza strazi, lacrime, proclami o polemiche, ma un momento che rimane unico, il penultimo home run di SuperJoe McEwing.

Daniele Vecchi
(in esclusiva per Indiscreto)

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