Il Pantheon arbitrario

18 Dicembre 2009 di Igor Vazzaz

di Igor Vazzaz
Il triste destino della musica di Rino Gaetano, dal brutto spot pubblicitario Montepaschi al post-fascismo. Passando per un inflazionato inserimento fra i ‘maestri’, la cristallizzazione e la banalizzazione delle sue canzoni. Nel nome del dio ritornello…

Triste destino per gli irregolari. Se in vita si può essere apprezzati e stimati, dalla morte non c’è difesa che tenga. Il destino è quello dell’equivoco, quando va bene; del tradimento, nella maggior parte dei casi. La nostra epoca, in cui tutto è merce da vendere o sfruttare per vendere altra merce, non fa che accentuare il processo, talvolta con risultati tragicomici: così, la réclame d’un noto istituto creditizio, ormai specializzato in musica d’autore, ha per colonna sonora la voce di Rino Gaetano nel suo primo successo discografico, Ma il cielo è sempre più blu (1975). Accostamento ardito: una banca si serve d’un brano in apparenza allegro che, in realtà, parla d’indifferenza, di dolore ignorato. I pubblicitari o non l’hanno capito o hanno confidato che il ritornello, isolato dal contesto, esprimesse un senso ben diverso da quello della canzone vera e propria.
Da tempo, il volto stilizzato di Gaetano campeggia sui muri di mezza Italia: iniziativa di Casa Pound, formazione post-fascista che così cerca d’appropriarsi simbolicamente del cantautore. I responsabili della campagna hanno dichiarato di voler rimediare allo scempio d’una fiction Rai colpevole d’aver gettata cattiva luce sull’urlatore calabrese. La questione era, ed è, un’altra: la nuova destra ha fame di personaggi che parlino all’oggi e, nell’assenza di cantautori (Massimo Morsello, definito spericolatamente il “De Gregori nero” è conosciuto da pochissimi, non senza ragioni), ripiega su un artista poco inquadrato e per di più morto, così non reclama.
Non è la collocazione politica di Gaetano a interessarci: rischieremmo il pantano di schemi vecchi, sebbene corra l’obbligo di ricordare come egli fosse stato di sinistra, senza esporsi troppo nelle canzoni. Poetica, non politica: «Non so mettere in musica le lotte studentesche o il movimento operaio, non perché non ci creda o non ci sia dentro, solo che non ne sono capace», dichiara nel 1978 a Sanremo. Le querelle su “a chi appartenga Gaetano” (i Ds lo scelgono come colonna sonora dell’ultimo congresso scatenando le ire di An, gli studenti dell’Onda protestano sulle sue note, quelli di destra pure) non sono interessanti in quanto tali, ma sono l’indice di come i suoi dischi non abbiano ancora smesso di parlarci e di come l’essere irregolare, non omologato, consenta spesso appropriazioni indebite, perverso contrappasso per cui il pregio dell’indipendenza muta nel suo esatto contrario.
Altro aspetto della questione è il grado di cristallizzazione che segue alla morte d’un artista, specie se questi ha avuto la bravura o la fortuna di reggere l’urto degli anni, qualità tanto importante quanto insondabile al momento in cui una carriera è in corso. Non si tratta di celebrare una grande voce, come cantante e come autore, ma di provare ad andare oltre all’usuale sequenza d’attributi, pure giustificati, che si è soliti attribuirle. Il mercato ha bisogno di fruibilità e per questo semplifica, incasella in generi, sfruttando la vocazione all’archivio della comodità commerciale: Gaetano, negli anni, è divenuto quello di Gianna e del Cielo sempre più blu, trascurando però lo spirito delle sue canzoni, le tematiche, le parole, mummificato in un’immagine poco autentica. Fenomeno diffuso, a dire il vero: basta pensare, tra gli altri, a Luigi Tenco, la cui immagine popolare s’esaurisce nella dimensione di chansonnier d’amore, ignorando del tutto le mille sfaccettature e le altrettante sorprese di un artista più complesso di quanto si possa credere.
Rino Gaetano ha sempre sfruttato il sense of humour, con immagini paradossali e improbabili per sorprendere l’ascoltatore. Vedere i titoli delle canzoni, prima ancora dell’ascolto: Mio fratello è figlio unico, Escluso il cane, Nuntereggae più. Una vena irridente percorre la sua opera, come se il sorriso e l’assurdità fossero le uniche maniere di cogliere l’essenziale delle cose, l’inevitabile contraddizione del mondo. È lo stesso Rino a farsi fool e cantore di personaggi buffi, ferrovieri disperati, lascive tessitrici, caimani ammaestrati: situazioni tratteggiate con poche parole, rapidissime pennellate su una tela variopinta. Ma il cielo è sempre più blu, nella sua totalità di canzone monstre da otto minuti e passa, è lampante esempio di accostamenti fantasiosi, fulminanti, ambivalenti: uscito come 45 giri, il brano è suddiviso in due (i lati del vinile) e presenta una carrellata di situazioni, flash fotografici con la feroce rapidità del montaggio frammentato e nervoso d’un videoclip. Non c’è asse portante in quel flusso ininterrotto di esistenze strampalate, se non il flusso medesimo, la totale indifferenza del mondo anche di fronte alle situazioni più tragiche. Il cielo è, però, “sempre più blu”: lo scorrere denso di fotogrammi casuali, Blob canzonettaro anni prima che Ghezzi e Giusti andassero in onda, fagocita ogni fantasia possibile.
Non è solo talentaccio quello di Rino, ma creatività mista ad applicazione, riscrittura e rielaborazione di esperienze artistiche più varie di quanto s’immagini: il gusto absurdista era stato ben alimentato dalla passione teatrale coltivata a scuola e nella Roma delle cantine, da spettatore e teatrante in erba. Impossibile che il Beckett di Aspettando Godot, in cui Rino si cimenta sul finire degli anni Sessanta, non influenzi la sua vena, così come l’incontro con la poesia di Majakovskij, col Pinocchio di Collodi, affrontato prima da adolescente, poi sulla scena d’un mitico allestimento di Carmelo Bene, nel 1981, in cui il cantante figura nei panni della Volpe. Scrivere e riscrivere è passione che lo avvince sin da ragazzo: alle medie inizia una parodia dell’Inferno dantesco il cui buffo incipit recita profeticamente «In illo tempore quando Betta filava, dall’infima melma nacque all’oscuro, un tipo che dall’aspetto pareva un buro. In quel tempo quando Betta filava (…)».
Ogni segmento della troppo corta carriera di Rino (dal ’73 col singolo I Love You Marianna al maggio ’81 con la strana formula del Q Disc intitolato Q Concert assieme a Riccardo Cocciante e i New Perigeo) evidenzia il gusto per le contraddizioni pregne di significato, il paradosso che coglie l’ascoltatore in un istante di dubbio sciolto poi nell’abisso d’una risata. Si pensi a «E Berta filava e filava con Mario e filava con Gino e nasceva il bambino che non era di Mario che non era di Gino». Il gioco sul verbo filare consente a Rino di sfruttarne l’ambiguità lessicale, non senza una citazione che sfugge ai più: «È passato il tempo in cui Berta filava», detto popolare diffuso in varie regioni italiane e riferito, si dice, alla beata Bertrada, madre di Carlo Magno e protettrice delle filatrici.
Giocare con suoni e significati è per Rino il modo migliore per suggerire anziché dire, per esprimersi con ironia, compiendo una ricerca, se non cólta, alquanto accurata. Il languido andamento di Sfiorivano le viole (1976) tratteggia un am
ore balneare: l’atmosfera latina cede a uno slow in cui la voce, prima languorosa, torna a strapparsi; la voluttuosa attesa dell’amata si rovescia nel coro che ripete «Oh yeah, mentre io, oooh yeah, aspettavo te» e la melodia strillata del cantante alterna immagini tanto pazzesche quanto efficaci: «il marchese La Fayette ritorna dall’America importando la rivoluzione e un cappello nuovo». Ciò mentre lui aspetta lei. Poco oltre: «Otto von Bismarck-Schönhausen per l’unità germanica si annette mezza Europa», sino al trionfale: «Michele Novaro incontra Mameli e insieme scrivono un pezzo tuttora in voga», col vezzo di citare il misconosciuto coautore del nostro inno.
I personaggi di Gaetano sono pazzi, allampanati, innamorati, con una personalissima lente per inquadrare la follia della realtà. Dare voce a queste figure è non solo un modo di suscitare riso e sorpresa, ma anche testimonianza del proprio amore per i deboli, per gli indifesi. Gaetano è una risposta meridionale, sporca e contadina a un altro grande fool, quell’Enzo Jannacci, meneghino di natali e idioma, le cui canzoni mettono da sempre in scena barbùn, ubriachi, strambi esclusi a vita che urlano «Vengo anch’io!» ottenendo puntuali rifiuti.
I brani di Rino, anche quelli in apparenza innocui, sono scrigni dal doppio fondo che attendono d’essere aperti: il segreto, talvolta in superficie talvolta celato dall’umorismo, sta in un dolore assoluto e innato, che la voce del cantante ha il merito di esprimere fisicamente prima ancora che con le parole. Una sofferenza difficile, oltre i limiti d’una biografia sofferta ma non più di altri coetanei, che affonda le radici in qualcosa di sommerso: solo un artista può dare forma a ciò che l’uomo sente senza poterlo esprimere del tutto. Per questo la vita di Gaetano, le origini calabre, le immagini ricorrenti d’un Sud rurale coi suoi vini ruspanti, i cardi, i fichi d’India (Ad esempio a me piace il sud, 1974), da sole non spiegano il miracolo d’una creazione artistica. Così come la povertà sofferta a Roma, il seminario frequentato: i missionari del Sacro Cuore a Narni sono la miglior soluzione per due genitori che, nei primi anni Sessanta (Rino è del ’50), lavorano in un’Italia in cui ancora non esistono strutture per aiutare famiglie moderne. E proprio in seminario, il taciturno ragazzo che ama Pitagora e la matematica sviluppa l’amore per la letteratura e la parodia.
Non si può distinguere un Gaetano comico da uno tragico: facce della stessa moneta, da essa indistinguibili. Il paradosso d’un “fratello figlio unico”, immagine ironica, s’intreccia con la malattia (l’operazione al fegato), con la prostituzione, col calcio (Chinaglia, simbolo della Lazio scudettata, che non può passare al Frosinone), con la frecciata sulla “mania” per Freud allora imperversante, per poi esplodere con «gli sfruttati malpagati e frustrati» cui avvicinare un’imprevedibile «e ti amo Mariù». Rino sfrutta ancora accostamenti eterogenei, però Mariù non è un nome generico, una fidanzata qualsiasi: protagonista d’uno dei pezzi più celebri del repertorio italiano, citandola Gaetano testimonia l’assurda presenza dell’amore nelle situazioni più tristi, il menefreghismo suscitato dalla felicità sentimentale, e punzecchia la tradizione canzonettara che, in fondo, finisce sempre per “amare Mariù” senza fare mai niente.
Per Gaetano, musica e canzoni non sono soltanto gli oggetti prodotti dal proprio lavoro, le proprie opere d’arte, ma elementi centrali della vita quotidiana, al punto che alcuni suoi brani finiscono per parlare a loro volta di canzoni, metacanzoni, si potrebbe dire. È il caso di una bella traccia di Nontereggae più (1978), E cantava le canzoni. Qui ritroviamo il sud, nelle immagini e nella lingua: ogni personaggio protagonista delle tre strofe, oltre ad amare Bice, finisce a cantare «le canzoni che sentiva sempre a lu mare». Con ironia, Gaetano rivendica la centralità della canzone, l’importanza del proprio mestiere, di una colonna sonora presente in qualsiasi circostanza. In Nuntereggae più la sequenza di sigle e personaggi, e la voce scocciata a ripetere il titolo, crea un effetto liberatorio, anche se irreale (quasi tutti quelli citati sono tuttora in auge): in coda al brano, la stilettata al cuore, quel «mentre vedo tanta gente che non c’ha l’acqua corrente e non c’ha niente ma chi me sente?» che è denuncia, urlo di dolore e, che è peggio, rassegnazione. Rassegnazione tutta meridionale, che si porta addosso miseria, impotenza, sopruso. Si pensi ad esempio ad Aida, inno d’amore per l’Italia in una serie d’immagini contraddittorie: la personificazione in una donna, la guerra, il fascismo, sino a quei «trent’anni di safari tra antilopi e giaguari, sciacalli e lapin», che sono la condizione stessa dell’autore, una specie di “fatica di vivere”, testimoniata ogni giorno. Eppure, «Aida, come sei bella».
La carriera prosegue e i toni si fanno duri, il sarcasmo più cupo. Variano i bersagli: la cementificazione selvaggia (Fabbricando case), le contraddizioni della rivoluzione sessuale in cui il vile maschio (Resta, vile maschio, dove vai, album del ’79) si trova spaesato, e il Sud, amato nella sofferenza, nel suo essere Metà Africa metà Europa, brano poco ricordato che sfiora con elegante coraggio il tema delle mafie. L’ultimo album, E io ci sto (1980) è un nuovo approdo, meno spiritoso: Gaetano, arrabbiato più che mai, indomito, non cede alla speranza ma, al contempo, è disilluso. I “sogni di rivoluzione”, quella rivoluzione mai precisata che spesso occhieggia dai suoi versi, innervano il brano che dà il titolo all’album, ma svaniscono nella caustica Ti ti ti ti, attacco ai «politici imbrillantinati che minimizzano i loro reati», a una classe politica disposta a «mandare tutto a puttana pur di salvarsi la dignità mondana». Proprio quest’ultima parte della carriera ha alimentato l’ambiguità per chi, da destra, ha visto in Gaetano una possibile voce amica, in un panorama cantautoriale “inquadrato”. La genericità di certe sue espressioni lo rendono differente, più vulnerabile, a patto d’ignorare la natura esistenziale dei testi. «A te che ascolti il mio disco forse sorridendo giuro che la stessa rabbia sto vivendo stiamo sulla stessa barca io e te»: non sono parole di analisi, ma di angoscia, di incazzatura e impotenza. «Ma chi me sente?»
Al di là dell’autore, l’aspetto fondamentale di questo strano artista è riuscire, più d’ogni altro, ad accompagnare il contenuto dei brani con la voce. Non è abilità tecnica: non si può e non si dovrebbe cantare come Gaetano, mettendo le proprie corde vocali a repentaglio nel tirare l’acuto imprendibile, granuloso e strappato. Nessun maestro di canto lo porterebbe a esempio per gli allievi. D’altronde, la forza disumana delle sue canzoni è strettamente legata alle incredibili doti d’interprete, al modo anti-virtuosistico di cantare, privilegiando l’anima del pezzo a dispetto di un’anestetica perfezione formale. Rino, nella sua disarmante modernità, è tecnicamente inconsueto, agli antipodi dalle mode contemporanee, fatte di perfezione sonora, di vocalità patinate, di virtuosismi da sbadiglio. La sua voce scuote, tramortisce, vibra di sofferenza, prima ancora che le parole giungano a destinazione: il suono trionfa sul discorso. Usare l’ugola in modo tanto sconsiderato quanto efficace è il pegno da pagare per esprimere ciò che non si potrebbe esprimere, per far passare un contenuto non scrivibile, non raccontabile. Non siamo nei dintorni della muscolarità esibizionista del contemporaneo Pappalardo, macchietta ante litteram ben prima del ritorno trionfale nella tv anni Novanta. Anche la scorrettezza tecnica richiede metodo e ragione d’essere: Rino grida, sovraccarica, sgrana a raggiunger note faticate, ma non compie mai sforzo gratuito, fine a se stesso. Tutt
o nel suo canto è necessario e urgente, doppio sonoro perfetto di quell’impasto di dolore e umorismo che sono le sue composizioni. Se proprio gli si volesse trovare un compagno di voce, potremmo pensare all’amico Cocciante (prima d’inventarsi “operista popolare”, i fortunatissimi Notre Dame de Paris e Romeo e Giulietta appartengono, secondo il loro autore, a un nuovo genere che unirebbe elementi della lirica e cultura pop), prossimo per pathos, ma del tutto alieno da qualsivoglia prospettiva spiritosa. La voce sgolata di Rino non è solo specchio del dolore, ma strumento irridente, canto che si sottrae al cantare, dribblando la sintassi per portare l’orecchio di chi ascolta altrove, sorprenderlo. Gaetano ride e piange allo stesso tempo, tocca la follia dell’assurdità, la rabbia dell’abbandono e la risata è tanto più potente quanto è forte la percezione, sotterranea e ineluttabile, di quella sofferenza insondabile, ben maggiore di quella comprensibile a parole, più profonda e inconsolabile.
Questo il dono più prezioso dell’urlatore calabro. Ecco perché una figura come quella di Rino Gaetano soffre più di altre la costrizione endemica del mercato a posteriori, lo sfruttamento intensivo di chi si ostina a considerarlo un trofeo da esibire in un panteon arbitrario. Chissà cosa direbbe oggi di quest’Aida smembrata, umiliata nel ridicolo d’un presente che ha smarrito il senso del ridicolo, lui che trent’anni fa denunciava i mali di allora e, senza saperlo, i mali di adesso. Chissà se i suoi dischi avrebbero continuato a incupirsi, a incazzarsi, sarebbero sfuggiti alle attese e se, come i veri artisti che soffrono matricole ed etichette, avrebbe avuto bisogno di cambiare, evolvere e involvere, sfuggire alla banalizzazione. Di certo, se vogliamo rendergli il giusto tributo, asteniamoci dal tirarlo per la giacchetta, dal considerarlo un busto per qualsivoglia pantheon. Ascoltiamolo; magari, arriveremo persino a capirlo.
Igor Vazzaz
(per gentile concessione dell’autore, articolo pubblicato sul periodico Possibilia)

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