Il nuovo apartheid del rugby sudafricano

11 Settembre 2015 di Stefano Olivari

Non sappiamo quasi niente di rugby, ma in questo periodo premondiale è impossibile non leggere articoli di presentazione e così ignorantemente abbiamo scoperto soltanto ora la vicenda delle quote razziali del Sudafrica. Paese per l’80% black african e per circa il 10 coloured (che suona meglio di meticcio). Il torneo che sta per iniziare, dove gli Springboks sono come al solito fra i favoriti (il Matchpoint dove siamo entrati poco fa, che si presterebbe anch’esso ad un discorso sulle quote razziali, dice che in questa edizione partono sulla carta terzi, dietro alla Nuova Zelanda e all’Inghilterra padrona di casa insieme al Galles), ha esportato un dibattito che all’interno del paese ha toni che in Europa sarebbero incredibili. Come è incredibile, almeno secondo noi del bar calcistico, che nessun addetto ai lavori del rugby internazionale e tutto sommato nessun appassionato si sia scandalizzato per la vicenda delle quote razziali che da auspici-raccomandazioni sono diventate regole, contro ogni logica sportiva. Perché quasi tutti i migliori rugbisti sudafricani sono bianchi, così come quasi tutti i migliori calciatori sono neri. Un clamoroso caso di razzismo dell’antirazzismo, che ha indebolito la nazionale da tre anni allenata da Heyneke Meyer (bianco) e capitanata da Jean de Villiers (bianco), che fra l’altro presenta il più alto numero di giocatori ‘non bianchi’ nella sua storia al Mondiale: 9 su 31 convocati. Vent’anni fa, con la storica William Webb Ellis Cup consegnata da Mandela al capitano Pienaar in un Ellis Park impazzito, dei 28 convocati sudafricani il solo Chester Williams non era bianco. I giorni di Invictus sembravano l’inizio di una nuova era rugbistica per la popolazione nera, che prima (l’apartheid era legalmente finito nel 1994) tifava per qualsiasi nazionale avversaria degli Springboks, ma pur essendoci stati miglioramenti nessun piano imposto dall’alto ha potuto cambiare una banale realtà: i giovani neri preferiscono giocare a calcio e nel corso di due decenni i giocatori davvero da nazionale, senza il doping delle quote, sono rimasti della razza di prima. E poi la maggioranza dei neri meno giovani continua a percepire il rugby come uno sport non suo, come ai tempi dell’apartheid che fece escludere la nazionale dalle prime due edizioni della Coppa de Mondo. Questione anche di gusti e di ambiente, uscendo dal Bignami storico: nessuno si scandalizza se tutti i migliori giocatori di pallacanestro americani sono neri e i migliori giocatori di hockey su ghiaccio sono bianchi. Nel caso del Sudafrica il problema è però anche l’avere stabilito quasi per legge (c’è in questo senso un documento della federazione, dello scorso febbraio, come spiegato dal Daily Telegraph) la razza dei convocati. Per il 2015 il target era di neri al 30% e Meyer, pur fra le polemiche, l’ha raggiunto. Per il 2019 la quota secondo la federazione dovrà essere di almeno il 50%, indebolendo così una delle nazionali più vincenti di sempre. La cosa che però stupisce è la mancanza di stupore. Il calcio dei Pulvirenti e dei Preziosi accetterebbe queste quote? Lo chiediamo agli esperti di rugby, sperando che non si stizziscano come quando osiamo definire amichevoli i test match.

2. La Nazionale italiana è l’unica squadra di pallacanestro per cui simpatizziamo a prescindere da chi ci giochi, mentre per il resto siamo molto più legati a personaggi, giocatori, allenatori, ricordi (per dire, ancora oggi cerchiamo nei supermercati la schiuma da barba Squibb e spesso la troviamo anche). Per questo abbiamo trovato molto da parrocchietta la modalità ‘Noi soli contro il mondo cattivo che non ha compreso per tempo la nostra grandezza’, tirata fuori dopo le partite con Spagna (per importanza la più bella azzurra dell’ultimo decennio, anche se non c’era grande concorrenza) e Germania. Con chi ce l’avevano gli azzurri? Con chi ha osato scrivere che Bargnani per essere 2,13 prende pochi rimbalzi? O con chi ha detto che questa squadra ha grande talento individuale in attacco ma difensivamente fa pena? Molto più dei calciatori gli sportivi di mondi (in Italia) più piccoli scambiano i giornalisti con tifosi o con gente che comunque deve sentirsi ‘sulla stessa barca’, in questo sostenuti da giornalisti-cortigiani che anelano al cinque alto o al selfie. Noi che leggiamo da sempre Oscar Eleni abbiamo un’idea abbastanza precisa di cosa dovrebbe essere il giornalismo, anche se magari non l’abbiamo messa in pratica per mancanza di talento e opportunità. Addirittura ad alcuni non è piaciuto l’entusiasmo di Flavio Tranquillo per alcune giocate dell’eroica Islanda o per i doverosi complimenti al meglio messo in campo dagli avversari, da Pau Gasol a Bjelica. Per Tranquillo una medaglia, per giocatori e soprattutto cortigiani una vergogna che stride con il grande spirito (non certo gioco) messo fin qui in mostra. Bisogna ribadire un concetto così banale da essere dimenticato: non siamo sulla stessa barca, ‘loro’ vincono magari anche per ‘noi’ ma di certo non sono ‘noi’.

3. Pochi film e ancora meno serie televisive hanno trovato la chiave giusta per raccontare il mondo intorno allo sport, dove gli spunti sarebbero in realtà tantissimi. Per questo troviamo promettente Ballers, da poco iniziato su Sky Atlantic, il cui protagonista è un ex campione di football interpretato da Dwayne Johnson, più noto ai wrestlemaniaci come The Rock. Johnson ha comunque davvero giocato a football, all’università di Miami, da defensive tackle, arrivando al confine del professionismo. L’inevitabile infortunio, che a tutti noi ha precluso grandi carriere ma che nel suo caso c’è stato davvero, aprì le porte della squadra a Warren Sapp (!!!)… Ma questo è l’attore, mentre il personaggio, Spencer Strasmore, ha avuto una grande carriera NFL nei Miami Dolphins con i soldi finiti però rapidamente e la necessità di riciclarsi come procuratore di giocatori o aspirante tale. La chiave scelta dagli sceneggiatori è proprio quella del denaro, della sua mancanza ma soprattutto della sua folle gestione da parte della maggior parte dei giocatori soprattutto neri: in un delirio di finti amici, parenti, locali, mega-auto, groupie, eccetera, troviamo molti di punti contatto con mondi a noi più vicini rispetto alla Florida. Il co-protagonista è Charles Greane (Omar Benson Miller: visto in Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee, fisico ed espressione da Forest Whitaker giovane), amico di Spencer e anche lui ex giocatore, che si trova nella necessità di trovare un lavoro vero ed inizia come improbabile venditore di auto. Finalmente un linguaggio giusto e credibile, senza la retorica e l’infantilismo di troppi sports movie.

Share this article