Il numero in più di Mennea

22 Marzo 2013 di Oscar Eleni

Una vita insieme, nati per amarci  tanto e odiarci  qualche volta perché il tipo, anche prima delle tante lauree, era davvero testardo. Primo incontro sulla pista di Lugano dove Pietro Paolo Mennea, nell’Italia B, aveva salutato, con rammarico, la nazionale di atletica italiana che volava verso le Olimpiadi del Messico.Lui cominciava una storia da grande re delle piste, molti di noi scoprivano il mestiere che volevano fare. Lui correva fortissimo, a noi bastava camminare per vederlo soffrire, sudare, imprecare, vincere, stravincere 350 giorni all’anno.

Quando voleva dare qualcosa di più ti lasciava sedere nella stanza  dei massaggi, soprattutto quando a manipolarlo erano Viscusi o Nazareno Rocchetti, pittore, scultore, artista,  confessore, l’uomo che sussurrava ai cavalli da gran premio come lui, Sara Simeoni, Gelindo Bordin, tutti ori olimpici e allora raccontava la sua vita, badando sempre al tempo. Non poteva arrivare in ritardo all’allenamento nel sacro convento di Formia, all’università di Carlo Vittori, l’uomo di tutte le rivoluzioni nella metodologia del lavoro su un campo sportivo, calcio o atletico non contava. Ateneo che ha fatto storia dello sport nel mondo perché quando il professore, nei convegni, raccontava ai colleghi, anche agli increduli americani, delle sedute di lavoro con il ragazzo di Barletta, che divenne campione olimpico e primatista mondiale, si sentiva sempre domandare, alla fine, se ” il purosangue” era morto.

Vita grande, vita strana, entusiasmante con questa strana coppia che andava all’assalto dei luoghi comuni, dimostrando che potevano  cambiare la via metodologica del training, affermando con i fatti che un velocista poteva anche allenarsi molto, poteva andare ben oltre il talento naturale. Spettacolo in pista, affascinante vita in comune seguirli fuori dal campo, anche quando litigavano, anche quando il Prof arrivava con qualche minuto di ritardo sul campo e vedeva Pietro indicare l’orologio, questo  dal primo all’ultimo giorno di magistero. Prima il lavoro, poi si parlava di tutto e anche qui erano scintille perché la natura degli uomini con muscoli di seta, Vittori fu un buon velocista, era quella. Agguati per scoprire la debolezza.

Una volta ad Oslo, dove gli americani avevano fatto il loro campo base prima delle Olimpiadi trovammo il professor Vittori  fradicio, sotto la pioggia, mentre spiava il pub dove il grande  mezzofondista dell’Oregon, il compianto Prefontaine, teneva banco, brindando con troppe birre e cercando di coinvolgere fratello Pietro, un francescano dello sport che scopriva, poco a poco, la vita al di fuori dell’eremo. Mennea non beveva, ma Vittoria temeva che volesse farlo e il suo rosario ascolano divenne colonna sonora del magnifico parco.

Erano nati per l’impresa. Accidenti se ci riuscirono alla faccia di considerava Mennea uno stortignaccolo, pur inchinandosi, come il grande Brera a quell’Aristotele così diverso da Platone Berruti re di Roma 1960. Da Lugano  1968 agli europei juniores di Parigi 1970, stadio di Colombes dove il mondo conobbe anche sorella Sara, la Simeoni saltatrice in alto oro di Mosca come lui, primatista mondiale come lui , prima di salutare il maestro Mascolo che lo allenava all’Avis Barletta. Da Helsinki, europei del1971, i primi per lui e per noi, a Seul 1988, attraversando il  cerchio di fuoco, sfidando e battendo gli americani, sfiorando Borzov, mettendo a sedere tanti pretendenti al trono.

La magnifica e strana coppia della nostra atletica viveva nel tumulto.  Erano insieme all’esordio olimpico di Monaco nel 1972 quando vinse il bronzo e svegliandosi la mattina dopo i festeggiamenti in un ristorante bavarese scoprì che sui tetti del villaggio olimpico c’erano i franchi tiratori incapaci, però, di impedire la strage degli atleti israeliani. Erano insieme a Montreal, Giochi del1976, i primi per gli inviati del Giornale quando c’era da raccogliere  e non ci furono medaglie, una rabbia mai nascosta che divenne pubblica quando Pietro, una settimana dopo, vinse al meeting di Viareggio con un tempo migliore di quello di Quarrie, vincitore in Canada.

Si inseguivano per soffrire insieme, per tarare il motore della vespa che Vittori cavalcava cercando di portarlo al massimo dei giri, finendo nei sacri fiumi di porpora quando il corridore superava il centauro che poi si giustificava dicendo di aver sbagliato ad inserire le marce. Mennea visse queste splendide baruffe culturali per tutta la sua vita sportiva, a Fiasconaro bastò un anno soltanto col prof, record del mondo sugli 800 all’Arena di Milano, per scegliere altre colline del  sudore.

Pietro Paolo Mennea, nato povero, era un tipo davvero strano: quando comprò le prime scarpe per correre, stanco delle vittorie sulla strada contro macchine veloci nello scosceso di via Pier delle Vigne e via Giannone, se arrivava primo prendeva i soldi per cinema e panino, ne volle un paio con un numero più grande. Tanto cresco. Lo ha fatto e la sua Universiade al Messico, quel record mondiale di 19″72 del 12 settembre 1979, un primato rimasto imbattuto per 17 anni, ci fece scoprire il Mennea più indecifrabile. Noi impazziti cercando di far capire l’impresa alla redazione, lui bello e solare in mezzo al campo a dedicare l’impresa a muse misteriose. Anche quella volta non fu festa piena. Vittori era convinto che valesse 19″60 e allora altri fiumi di porpora.

Non certo come quelli di Mosca dopo l’eliminazione in  semifinale sui 100. Era una Olimpiade malvagia, boicottata, ma su Pietro si puntava tanto. Impossibile stanarlo dal villaggio, sentivi soltanto l’eco di quelle tormentate sedute che sembravano mettere in guerra spiriti nati per l’impresa. Ci pensò il grande Borzov a farlo meditare. Era stato il suo idolo, aveva lavorato per raggiungerlo e nel 1972 aveva raggiunto il traguardo dei 100  insieme al grande  Valery, battuto al photofinish. Gli disse che lo vedeva vuoto, sperduto, e regalandogli l’orsetto mascotte chiamato Misha provò a rincuorarlo. Ci riuscì per davvero. Se al Messico aveva la corsia centrale sulla una striscia consumata di tartan, allo stadio Lenin gli toccò l’ottava corsia. Come per il record del mondo la prima parte fu problematica, vele da sistemare in curva, non fu un 10″34 come sui primi cento in altura, uscì sul rettilineo guardando molto da lontano la schiena dello scozzese Wells. In quel momento ecco fratello Pietro e la sua voglia di mordere come gli capitava sempre a tavola, 3 piatti di pasta al forno erano la dieta del campione pre gara, lasagne e acqua minerale non gassata, Vittori non voleva. Rimontò, vinse, non fece nemmeno il 9″38 della seconda parte messicana, ma fu un meraviglioso 20″19 che divenne il caviale per tutta la missione.

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