Il Nobel Riccardo Giacconi e la nostra spocchia

15 Gennaio 2019 di Stefano Olivari

Più di un mese fa, il 9 dicembre, è morto Riccardo Giacconi e pur non essendo appassionati di fisica abbiamo trovato incredibile che in Italia la notizia sia stata liquidata, con qualche eccezione, in poche righe di giornale e che sia quasi passata sotto silenzio in televisione. Stiamo parlando del Premio Nobel 2002 per la fisica, oltretutto italiano e di formazione italiana, anche se poi da adulto avrebbe preso la cittadinanza statunitense. Insomma, nell’ignoranza quasi totale in materia di fisica, astrofisica e non solo, ci si poteva anche ricordare uno dei non troppi premi Nobel italiani. Per la fisica oltre a lui lo hanno vinto Marconi, Fermi, Segrè e Rubbia…. È solo interesse giornalistico, non certo un pistolotto in nome dei ‘valori’: siamo i primi a pensare che il caso Nainggolan o un selfie di Salvini facciano più numeri, più click, più tutto e che quindi si debba parlare di quello a meno di non essere ricchi signori (o poveri ma con ricchi sponsor) che fanno i giornalisti per hobby. Non ci improvvisiamo quindi esperti di astrofisica, ma di Giacconi parliamo perché molto prima della sua morte ci ha fatto un po’ vergognare di noi stessi.

Primavera 1986, ci stiamo avviando verso l’esame di maturità del liceo scientifico Vittorio Veneto e l’incubo di tutti, anche di chi come noi in matematica era decente, era lo studio di funzione. Soprattutto per la velocità di esecuzione, che avrebbe potuto pregiudicare il resto del compito. Al termine di un quinquennio di semi-vacanza, uno dei peggiori risultati del Sessantotto (in mezzo a tanti buoni) era stato quello di rendere quasi impossibili le bocciature dopo le prime classi, ci eravamo finalmente posti il problema della preparazione. Bisogna ricordare che all’epoca il percorso scolastico contava pochissimo, il voto dipendeva quasi totalmente da quanto riuscivi a spararti alla maturità. Con l’amico Michele decidemmo quindi di prendere qualche ripetizione da un insegnante vecchio stampo, che cioè ci insegnasse qualcosa. E ci consigliarono questa anziana professoressa, la signora Elsa Canni, che non abitava esattamente davanti a casa (lei in centro, in via Cusani, noi nella periferia ovest che all’epoca era comunque dignitosa) ma che ci avevano detto essere molto brava con allievi già in possesso di qualche base, non ignoranti completi. Per farla breve, iniziammo queste ripetizioni a casa sua: un appartamento da buona borghesia, con mobili antichi, poca paccottiglia e tante foto di suo figlio. Senza che noi andassimo sull’argomento non mancava mai a fine lezione qualche frase su quel figlio lontano, che faceva lo scienziato in America. Non c’era ancora la retorica sulla fuga dei cervelli, era sinceramente contenta che suo figlio studiasse e insegnasse fisica dove era possibile farlo al massimo. È quasi superfluo ricordare che queste odi al figlio lontano venivano da noi prese come la solita lagna della madre italiana che vede in suo figlio un fenomeno, un genio, un essere unico e sublime. Insomma, le battute si sprecavano. Il MIT, la NASA, la Johns Hopkins, ma quando mai! Tutti premi Nobel, questi figli…

La signora Canni (sul citofono c’era però scritto Canni-Giacconi, Giacconi era il cognome dell’ex marito) era bravissima: autrice di libri di geometria, era di una chiarezza espositiva clamorosa. Dopo tre mesi arrivò la maturità, con lo scritto di italiano il giorno dopo Francia-Italia dei Mondiali e quello di matematica due giorni dopo. Il calcolo di tre aree su un piano cartesiano, uno studio di funzione, una dimostrazione e una domanda quasi teorica (e scritta con i piedi) riguardante un’altra funzione. Quasi tutto in scioltezza, a bilanciare uno scritto di italiano in cui scelleratamente avevamo rinunciato al tema sulla Destra storica per qualche banalità sull’innovazione tecnologica. Insomma, alla fine 50, con il massimo che era 60, e ringraziamenti alla professoressa Canni, della quale ci saremmo dimenticati fino al 2002, quando leggemmo la notizia del Nobel assegnato a suo figlio Riccardo Giacconi. Insomma, non eravamo i migliori fra i suoi allievi: nella migliore delle ipotesi i secondi. Ma da quel momento abbiamo sempre concesso il beneficio del dubbio, anche troppo, a chi ci dice che suo figlio è un grande scrittore, un grande calciatore, un grande manager: in diverse altre occasioni, soprattutto quando il genitore ne parlava con naturalezza (come la prof Canni), è stato vero. E comunque quelle poche righe di giornale, un mese fa, ci mettono tristezza.

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