Basket
La generazione di Tino Caspani
Stefano Olivari 20/07/2022
Tino Caspani è morto, la triste notizia è stata data da Chuck Jura e non vogliamo fare coccodrilli per quello che sarà sempre il nostro presidente, da indegni giocatori del minibasket Mobilquattro-Xerox (che mandava nelle scuole elementari i suoi istruttori a diffondere il Verbo) e soprattutto da tifosi della Pallacanestro Milano negli anni Settanta. Quella che molti appassionati italiani ricordano per Jura, ma anche per Grey, Lauriski, Serafini, Farina, Giroldi, Rodà, Guidali, Veronesi e tanti altri. Con un posto d’onore ai tre grandissimi allenatori dell’era Caspani, in varie forme durata dal 1971 al 1979: Riccardo Sales, Dido Guerrieri e Dante Gurioli.
Non stiamo a copiare da noi stessi cose che abbiamo già scritto insieme a Giorgio Specchia nel libro L’Altra Milano – Dall’oratorio a Jura, la generazione della pallacanestro, successo incredibile in rapporto al basket e a quella squadra da 42 anni scomparsa dalla Serie A (ora è in C Gold), e siccome siamo nel 2022, in piena deindustrializzazione e con milioni di persone che votano sognando un sussidio, vogliamo ricordare la grande lezione del signor Mobilquattro, che prima entrò nel club come sponsor, poi come comproprietario insieme ad Azeglio Maumary (il creatore del grande GEAS) ed infine proprietario unico.
La lezione non è stata quella di avere vinto scudetti, perché non ne ha vinti e mai nemmeno ci è andato vicino, ma di essere il classico mobiliere lombardo, per non dire brianzolo, dell’epoca capace di fare i miliardi (di lire) con il suo grande lavoro, senza intuizioni particolarmente geniali, per poi subire tracolli di mercato e finanziari per i mutati gusti del consumatore, non per colpa dei poteri forti, e quasi da anziano di ritornare al grande successo con la sua Caspani Tino Group e una produzione rivolta al target alto e internazionale, a gente che l’IKEA l’ha soltanto sentita nominare. Insomma, un imprenditore al tempo stesso d’altri tempi e di questi tempi.
Ritrovata la ricchezza era comunque troppo tardi per tornare al suo grande amore che era la pallacanestro, ma non per ricordare con una memorabile cena (c’eravamo, insieme a quasi tutti i giocatori) dal vecchio Mico, che era stato il cenacolo di Aldo Giordani, il senso di spendere soldi sia per lo sport di vertice sia per quello di base. Fra l’altro lui nasceva come tifoso di Cantù, e nei suoi anni migliori avrebbe almeno come sponsor potuto mettere la faccia sulla straordinaria Cantù di quell’epoca, ma era stato preso dalla sfida all’Olimpia su tutti i terreni: Serie A e minibasket, Palalido e campetti, promozione e spettacolo.
La sua sfortuna sportiva fu quella di arrivare alla Pallacanestro Milano dopo l’epoca dei Milanaccio e dell’All’Onestà (un misto fra una Upim e una OVS di oggi, per spiegare ai più giovani), in cui si spendevano cifre incredibili per arrivare comunque a metà classifica. Oggi Caspani verrebbe omaggiato come uomo del basket sostenibile, dei giovani, del territorio, eccetera, all’epoca fu definito (Oscar Eleni l’ha più volte ricordato) straccione e per estensione diventarono straccioni anche i suoi giocatori, oltre ai tifosi.
Nel nostro piccolo, anzi piccolissimo, abbiamo provato a riaccendere il fuoco in lui, incontrato per la prima volta in un bar della zona industriale di Mariano Comense (che per noi è la Silicon Valley) quando era già ripartito alla grande. Le provammo tutte: la battaglia con la Jugoplastika, con quel passi inesistente fischiato a De Rossi che cambiò la storia, il canestro di Lauriski nel derby, Jura ogni estate strappato alla NBA dove, senza esagerare, il comprimario avrebbe potuto farlo, con ingaggi da NBA ma pagati da Caspani. Gli bastavano i ricordi e possiamo capirlo.
Tino Caspani non sarà ricordato come Santiago Bernabeu, ma ha dimostrato che la passione può creare passione. Senza avere secondi fini, al punto che di Caspani come presidente della Pallacanestro Milano non esistono foto e nemmeno lui ne aveva: l’unica che abbiamo recuperato è quella di una presentazione in cui lui non sembra nemmeno il proprietario, ma un impiegato (è il terzo da destra, sotto la palma disegnata) che spera di non essere notato. Parlava poco, faceva molto: tipico esponente di una generazione più volte ricordata, con i suoi pro e i suoi contro, che per motivi non soltanto culturali non produceva Steve Jobs o Zuckerberg ma gente seria sì. Grazie presidente.
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