Il mercato della cittadinanza

2 Gennaio 2009 di Pippo Russo

La scorsa settimana su queste colonne, a proposito della possibile naturalizzazione di Amauri, il sub-comandante Max Gallo lanciava un perentorio interrogativo: perché il centravanti della nazionale deve essere brasiliano? Gli rispondiamo in modo argomentato, eliminando la formula interrogativa e sostituendo il verbo: perché il centravanti della nazionale “può” (non “deve”) essere brasiliano. E premettiamo che non si tratta di condividere o meno la piega presa dalle cose; ché anzi, a dovere esprimere un giudizio, comunichiamo il nostro spaesamento davanti al moltiplicarsi di atleti (indipendentemente dalla disciplina sportiva) pronti a vestire la maglia d’una rappresentativa nazionale diversa da quella del loro paese di nascita. E tuttavia, dovendo analizzare la questione da sociologi dello sport e della cittadinanza piuttosto che da appassionati, non si può non riconoscere che l’ipotesi di un brasiliano centravanti della nazionale italiana non è una bizzarria (non più di quanto lo sarebbe un argentino ala destra della medesima squadra, almeno). Viceversa, ciò è un segno del tempo nuovo che investe non soltanto il mondo dello sport, ma l’intero assetto dei rapporti fra cittadinanza e nazionalità nell’epoca delle società post-nazionali.
E’ dall’inizio degli anni Novanta che la moda del cambio di nazionalità si è diffusa fra gli atleti. In ballo ci sono il vil denaro ma anche un’opportunità di competere a livello internazionale altrimenti negata. Né a frenare la militanza nelle “nuove” nazionali basta il fatto che alcuni atleti abbiano già vestito le casacche delle nazionali dei loro paesi di nascita (condizione che fino alla fine degli anni Ottanta avrebbe costituito un tabù). Soprattutto, si è espansa in modo pernicioso la pratica delle naturalizzazioni “ad hoc”. Ovvero, non quelle che giungono al termine di un ordinario percorso legale sancito dalle legislazioni nazionali, le quali assegnano un’importanza cruciale alla nuzialità (come nel caso di Fiona May) o alla maturazione di un periodo minimo di residenza; ma quelle rispondenti a un’esigenza di reclutare all’estero il talento sportivo che i sistemi di formazione nazionale non sono più in grado di produrre. Ci sono paesi in cui queste pratiche vengono adottate senza alcuno scrupolo. Il Bahrein e il Qatar hanno tracciato la strada, ma anche la Spagna (col grottesco caso dello sciatore di fondo tedesco Johann Mühlegg) si è avvalsa di questa opzione. La quale trasforma il passaporto in una sorta di cartellino dell’atleta, messo sul mercato e venduto al miglior offerente. E’ il principio della “cittadinanza per skill”, della membership conferita all’attore non in quanto persona portatrice di diritti individuali e universali, bensì di capacità personali e irripetibili; lo stesso principio di attrattività del talento che ha spinto l’Ue a creare una “Carta Blu” per gli immigrati di qualità. Siamo nell’epoca in cui il principio del “nation building” è stato sostituito da quello del “nation managing”, e la competizione globale si vince attraendo le migliori risorse umane. Del resto, nessuna delle frasi circolate a proposito del caso-Amauri ha tirato in ballo la questione “essenzialista” dell’appartenenza nazionale. Lui indugia soltanto perché valuta la differenza di chance sportive (nell’Italia sarebbe certamente titolare, nel Brasile no); esattamente ciò che spinse Camoranesi a accettare l’offerta italiana, dichiarando subito dopo che si sarebbe sentito sempre argentino. Lo stesso Amauri ha inoltre aggiunto che gli preme acquisire il nuovo passaporto soprattutto per liberarsi della scomoda condizione contrattuale da extracomunitario. La madre del calciatore ha detto che il figliolo farebbe bene a accettare l’offerta italiana perché dal nostro paese gli sono venute le maggiori soddisfazioni sportive. Il presidente della FIGC, Abete, si dichiara ben lieto di poter schierare in azzurro il nuovo centravanti, e il presidente juventino Cobolli Gigli aggiunge che un Amauri “italianizzato” eviterebbe al giocatore (e alla Juventus) il fastidio dei viaggi transoceanici per gli impegni col Brasile. Lo stesso Cobolli Gigli ha aggiunto: “Sarebbe un peccato se un campione del genere non diventasse italiano”. Già, un tempo gli italiani bisognava farli; adesso è necessario che altri lo “diventino”. E nonostante tutto ciò, c’è ancora chi si ostina a parlare di “6+5” nei campionati nazionali, con limitazione nell’utilizzo degli stranieri. Sarebbe molto più serio imporre una regola semplice in tutti gli sport: nelle competizioni per rappresentative nazionali l’atleta può gareggiare soltanto per il paese di cui è nativo. Ma da quest’orecchio il presidente del Cio, Rogge, e quello della Fifa, Blatter, proprio non sentono.
Pippo Russo
http://www.myspace.com/pipporusso
(per gentile concessione dell’autore, fonte: Il Riformista del 31 dicembre 2008)
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