Basket

Il guado dei Lakers

Stefano Olivari 23/05/2012

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I Lakers 2011-12 sono stati ‘underachiever’, come li ha definiti Metta World Peace, o semplicemente hanno incontrato una squadra più forte, più giovane, più fisica, con meno problemi di spogliatoio, con un miglior secondo quintetto? Per noi la risposta giusta è la seconda, fra l’altro pensiamo che i Thunder abbiano qualcosa in più anche degli Spurs e degli Heat che potrebbero incontrare in finale. Questo non toglie che i Lakers siano proprio dove una squadra NBA non vorrebbe mai essere, cioè a metà del guado: troppo forti per essere smantellati e troppo caratterizzati per pensare che nei prossimi anni la situazione possa cambiare con qualche innesto mirato. Non mancheranno articoli sul declino di Kobe Bryant, dopo 16 anni di NBA e sempre a un anello da Michael Jordan, ma chi ha guardato le partite di questi playoff (anche quelle post-vomito giocate con i Nuggets) di questo declino non si è per la verità accorto. Certo, non è quello di dieci anni fa ma per certi aspetti è anche meglio. Che cosa dunque non ha funzionato in una delle tre squadre, insieme a Celtics e Sixers, che per ovvie ragioni raccoglie il tifo degli appassionati italiani di mezza età?

1. Il modello Twin Towers, che fa molto anni Ottanta o al limite Spurs dei due anelli Duncan-Robinson (1999 e 2003), ma che quando non ha alternative tattiche diventa una prigione. Un nome e un cognome: Lamar Odom, disperso fra Dallas e Kardashian. Non solo problemi difensivi, anche se certi aiuti ritardati di Bynum e Gasol sono sembrati inaccettabili, ma anche offensivi visto che non esistono solo le statistiche. E nelle fasi decisive delle partite di playoff i tre secondi difensivi non esistono, dare sistematicamente la palla dentro a giocatori poco esplosivi alla fine è stato controproducente. Poi ci sono le singole situazioni. Gasol da quando è stato messo sul mercato, quindi da molto prima dell’All Star Game, si è limitato, si fa per dire, ad una pallacanestro da clinic e anche quando è rimasto si è capito che il suo rapporto con Kobe è cambiato (anche senza arrivare alle accuse di Bryant di essere stato poco ‘assertive’ in attacco contro Oklahoma City). Bynum anche contro l’evidenza dei numeri, visto che viene dalla sua migliore stagione di sempre (18,7 punti e 11,9 rimbalzi di media), continua a irritare per la poca esplosività in attacco e per la fiducia cieca nella stoppata in difesa. Piace a Bryant, evidentemente piace alla proprietà, ma Phil Jackson aveva capito perfettamente cosa poteva dare e in quali momenti della partita. Comunque Jim Buss, figlio del proprietario Jerry, ha già dichiarato che i Lakers eserciteranno l’opzione da 16 milioni e rotti di dollari per la prossima stagione. Rimaniamo della nostra idea, da semplici guardatori dei Lakers: il problema non è Bynum, ma che Bynum venga considerato una stella intorno a cui far girare il sistema. Se avesse il rango di un Jordan Hill andrebbe benissimo, ma così non è. Previsione: Bynum rimane, Odom torna, Gasol viene utilizzato per arrivare a una point guard che sposti.

2. Il ‘manca un regista’ dei vecchi spettatori fuori da ogni stadio di ogni sport di ogni parte del mondo si può applicare anche ai Lakers di questa stagione. Fisher era ormai solo un guru da spogliatoio e l’arrivo di Sessions non è stata una mossa strampalata, solo che Sessions si è dimostrato un ottimo e dinamico penetratore da stagione regolare ma a livello playoff è stato molto ridimensionato. Non essendo nemmeno questo grande creatore di gioco, Bryant gli preferiva Blake che da tiratore quale è sapeva almeno sfruttare i suoi scarichi. In difesa invece insufficienti sia Sessions che Blake, mentre il discorso sulla personalità non può nemmeno iniziare. Nei Lakers, ma il discorso sarebbe perfetto anche per gli Heat, quallo che noi chiamiamo playmaker non deve essere un genio del basket ma uno di personalità che impedisca al Kobe o al LeBron della situazione di palleggiare per 20 secondi per poi tirare (e spesso segnare, si tratta di fenomeni) con la mano in faccia. In tutti questi bei discorsi il convitato di pietra è ovviamente Chris Paul, che Kupchak aveva ingaggiato prima che il dirigismo di Stern facesse saltare l’operazione.

3. Mike Brown, formatosi alla scuola Spurs e poi capoallenatore nei Cavs di LeBron James, sa cosa siano le gerarchie e quindi non ha avuto problemi nel rapporto con Bryant. Addirittura l’ha messo in panchina in una fase del quarto quarto di garacinque con i Thunder, mentre i Lakers erano sotto di 6 ma ce la potevano ancora fare: roba che con lo stesso Phil Jackson avrebbe provocato un ammutinamento del Mamba ma che dopo l’eliminazione è stata messa in mezzo a mille altre considerazioni. In generale ha dato più enfasi alla difesa, ma non è che l’anno scorso i Lakers non difendessero, senza buttare via tutti i giochi del passato (primo fra tutti il famoso triangolo, che soprattutto nei minuti con Gasol leader tecnico si è continuato a vedere) in attacco. Non ha mai commesso peccati di overcoaching, come del resto quasi nessun allenatore NBA, ma nemmeno ha dato alla squadra qualcosa in più a livello emotivo o tecnico. Al di là del contratto, uno che si può tenere o cambiare: non è né il problema né la soluzione.

Stefano Olivari, 23 maggio 2012

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