Basket
Il grande centro
di Stefano Olivari
Pubblicato il 2008-09-08
1. Venerdì scorso a Springfield si è svolta una delle cerimonie più toccanti dello sport americano, l’ingresso nella Hall of Fame di nuovi eletti. E’ uno dei momenti più belli, lo sport che riconosce i grandi del suo passato. E’ stata un’edizione tra le più significative perché a entrare nella galleria degli immortali sono stati Pat Riley, ovvero uno dei due allenatori più celebrati negli ultimi venti anni, e due dei grandi centri degli anni ’80 e ’90, Hakeem Olajuwon e Patrick Ewing. Fino all’arrivo e poi l’esplosione di Shaquille O’Neal, si è discusso per anni su chi fosse migliore: Olajuwon, Ewing o David Robinson? Diremmo che il migliore sia stato proprio Hakeem: Ewing è stato un miglior giocatore di college e con la sua Georgetown sconfisse in finale proprio la Houston di Hakeem. Ma nella NBA è stata un’altra storia. Olajuwon ha giocato due finali e le ha vinte tutte e due, Ewing è arrivato all’atto conclusivo due volte ma non ha mai vinto. La prima volta a batterlo furono proprio i Rockets di Olajuwon, la seconda volta nel 1999 era infortunato e non riuscì a giocare la Finale. Avesse potuto farla avrebbe incrociato le armi con Robinson, l’altro dei “Big Three” del ruolo. Ma San Antonio quell’anno era superiore ai Knicks e difficilmente Ewing avrebbe vinto il titolo. Alla fine, a Ewing è mancato il titolo che Robinson ha vinto due volte grazie a Tim Duncan principalmente e Olajuwon si è conquistato con le sue mani. Pochi hanno notato che Hakeem ha vinto la Finale del 1994 battendo Ewing e quella del 1995 battendo Shaquille. Prima di arrivare in Finale aveva battuto anche Robinson. Nel 1995 Robinson fu Mvp della regular season ma le sei partite della finale di conference non lasciarono dubbi su chi fosse il migliore. Hakeem appunto.
2. Nella galleria dei grandi allenatori NBA, quelli che hanno segnato un’epoca, gli innovatori, Pat Riley viene cronologicamente dopo Red Auerbach e Red Holzman. Ha combattuto contro Billy Cunningham e Bill Fitch e KC Jones ma la verità è che all’inizio della sua folgorante carriera non ha avuto un vero avversario fintanto che Chuck Daly non ha preso in mano i Pistons e soprattutto Phil Jackson è approdato a Chicago. Ma Daly era più anziano e la sua permanenza ai vertici della Lega è stata tutto sommato di breve durata. Così sono stati Riley e Jackson a imporsi prima che lo facesse Gregg Popovich che come personaggio non è nemmeno vicino alla statura degli altri due. Oggi abbiamo la sensazione che non ci sia in rampa di lancio un allenatore con quel tipo di carisma. I coach di maggiore personalità, più creativi, allenano nei college ma ormai si tratta di due lavori diversi. Billy Donovan ha flirtato con l’idea di passare alla NBA dopo due titoli NCAA a Florida ma si è chiamato fuori prima di farlo davvero. Rick Pitino prima di lui ha fallito. Mike Krzyzewsky non ha mai voluto provarci pur avendo avuto le offerte e le opportunità per farlo. Così abbiamo il sospetto che Jackson resterà l’ultimo dei mohicani. Con nove titoli a cinque, ha vinto più di Riley ma non siamo sicuri sia stato un miglior allenatore. Tutti e due hanno vinto con giocatori fantastici ovviamente ma i successi dei Lakers contro Sixers e Celtics abbiamo la sensazione valessero qualcosa di più dei sei titoli vinti dai Bulls. E Riley ha cominciato una decina di anni prima di Jackson, il suo regno è stato più lungo e ha costruito più squadre. Si tratta di giudizi soggettivi, intendiamoci. Dwyane Wade parlando di Riley ha detto una cosa molto interessante: “E’ stato lui a rendere figo fare l’allenatore”. E’ stato nella NBA il primo coach-personaggio, capace di trascendere il proprio ruolo e il proprio sport. Ma dietro queste etichette si nascondeva un lavoratore maniacale. Crediamo abbia sulla coscienza solo una partita importante, la settima della Finale NBA del 1994, ironicamente proprio quella che ha impedito a Ewing di vincere il suo titolo. Quella sera Riley aspettò per tutta la gara che John Starks si sbloccasse come era successo in gara6 quando era arrivato ad un tiro dalla vittoria, il titolo e la palma di Mvp della Finale. Ma Starks non si sbloccò, fece 2/18 al tiro e 0/11 da tre. I Knicks persero e il titolo andò a Houston. Riley ad un certo punto avrebbe dovuto tirarlo fuori e far giocare chiunque, Hubert Davis o persino l’appassito Rolando Blackman, ma non Starks. E tuttavia anche in quella scelta – sbagliata, l’ha ammesso lui stesso – si cela un allenatore che ha un sistema, ha delle convinzioni e non si piega mai. Riley cavalcò Starks fino alle estreme conseguenze perché era con Starks che era arrivato fino a quella partita. Fosse stato meno rigido nelle proprie convinzioni forse avrebbe vinto un titolo in più. La morale? Fosse stato un allenatore un pochino meno bravo, avrebbe vinto quella partita.
3. Dietro questa cerimonia ci sono tante storie particolari. Olajuwon si dichiarò per i draft NBA del 1984. Quella è l’edizione considerata la più grande di sempre. Olajuwon fu chiamato all’1, Michael Jordan al 3, Charles Barkley al 4, poi toccò più avanti a John Stockton. I Rockets scelsero Olajuwon un anno dopo Ralph Sampson e non ebbero mai grossi dubbi, ma se avessero davvero offerto Sampson ai Bulls avrebbero potuto avere anche Jordan. Rod Thorn, allora general manager dei Bulls, ha ammesso che per Sampson gliel’avrebbe dato. Come sarebbe cambiata la storia se Olajuwon e Jordan fossero arrivati insieme a Houston? Portland al numero 2 avrebbe scelto comunque Sam Bowie che ricordava molto Bill Walton, purtroppo anche nella fragilità fisica. In retrospettiva Jack Ramsay, allora coach dei Trail Blazers, ha ammesso che se fossero stati un po’ più svegli avrebbero preso Jordan pur avendo Clyde Drexler – arrivò un anno prima – dopodichè avrebbero potuto cedere Drexler e il veterano Jim Paxson per prendere il centro che non avevano. Ma avrebbero avuto Jordan. Ci siamo chiesti spesso cosa sarebbe accaduto invece se Patrick Ewing anziché tornare al college per il quarto anno si fosse dichiarato assieme a Olajuwon e Jordan. Ai tempi nostri sarebbe successo di sicuro. Houston avrebbe scelto comunque Olajuwon per una questione di campanilismo anche se Ewing era più quotato. Ma Portland, che voleva un centro, avrebbe preso Ewing, non Bowie, e siccome Chicago da una ricostruzione è emerso che non avrebbe mai preso Bowie, ecco che l’indirizzo di Jordan non sarebbe cambiato. I Blazers però avrebbero costruito il loro decennio successivo sulla coppia Drexler-Ewing. E forse avrebbero davvero cambiato il loro destino. E magari Drexler a fine carriera non sarebbe andato a Houston e chissà cosa sarebbe successo ai Rockets.
4. Mentre Riley veniva indotto nella Hall of Fame, per usare un’espressione americana (non si viene eletti ma inducted appunto), a 78 anni moriva Don Haskins. Si tratta dell’allenatore dell’università di Texas Western che nel 1966 portò al titolo NCAA un quintetto di soli giocatori di colore. Oggi sarebbe normale, nessuno lo noterebbe, ma quaranta anni fa fu un evento storico che ha ispirato anche il celebre film “Glory Road”. A incrementare l’impatto di quella partita fu il nome dell’avversario. Non solo Kentucky era una superpotenza del basket universitario – Texas Western poi diventata UTEP, ovvero Texas-El Paso, non lo era – ma l’allenatore, il leggendario Adolph Rupp, detto il Barone, era tanto bravo come coach quanto detestabile umanamente. Era considerato un razzista e non si vergognava di esserlo. Celebre l’episodio in cui telefonò ad un giornalista del New York Times chiedendogli di apporre un asterisco accanto ai nomi dei giocatori di liceo di colore così non avrebbe perso tempo a reclutarli. Tant’è che la squadra di Kentucky che perse la finale del 1966 aveva un quintetto tutto b
ianco. Uno dei migliori giocatori, ecco il legame, si chiamava Pat Riley. Per chiarire, Haskins ha allenato l’afroamericano Nolan Richardson che poi ha portato al titolo NCAA l’università di Arkansas, oltre a Nate Archibald, Tim Hardaway, Antonio Davis.
5. Una moratoria sulla nazionale appena travolta in Serbia è doverosa per evitare di essere ripetitivi. Ci sono arrivate numerose e-mail sull’argomento. Qui preme puntualizzare che in effetti andare a Belgrado con Amoroso e Di Giuliomaria come coppia di lunghi titolari e Gigi Datome da ala piccola – e non ha segnato! – non è proprio il massimo. L’elenco degli assenti è impressionante: Bargnani, Gallinari, Belinelli, Bulleri e Vitali (infortunati), Rocca, Hackett, Galanda, Marconato, Pecile, Basile se andiamo a considerare anche quelli che hanno più o meno chiuso con l’azzurro o sono rotti o sono stati ignorati. Ma restiamo dell’avviso che l’inevitabile maxiprocesso debba cominciare da una severa autocritica che deve partire dai vertici federali, passare attraverso l’allenatore (ha ottenuto il meglio dagli uomini che aveva?), i giocatori presenti (hanno fatto quello che potevano?) e infine anche quelli che non c’erano. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità. I giocatori che hanno incassato venti punti dalla Serbia sono gli stessi che quando vanno a trattare l’ingaggio con i loro club non fanno proprio professione di modestia e il monte salari della nazionale di questi giorni è come minimo il triplo di quello degli ungheresi che ci hanno battuto all’andata.
6. Un lettore si chiedeva la scorsa settimana cosa significasse “giochi proprio a Toronto” relativamente ad Andrea Bargnani e la preferenza dei Raptors affinchè saltasse l’impegno con la Nazionale. I Raptors, come avevamo spiegato poco prima, sono il club che ha di fatto perso Jorge Garbajosa per un anno a causa della nazionale, quindi è evidente che se c’è un club scettico e timoroso sotto questo aspetto è proprio quello di Toronto. Tra l’altro Calderon si è infortunato anche lui durante le Olimpiadi. Sarà sempre più difficile trovare un canale di comunicazione sgombro con quel club, se vogliamo essere realisti.
2. Nella galleria dei grandi allenatori NBA, quelli che hanno segnato un’epoca, gli innovatori, Pat Riley viene cronologicamente dopo Red Auerbach e Red Holzman. Ha combattuto contro Billy Cunningham e Bill Fitch e KC Jones ma la verità è che all’inizio della sua folgorante carriera non ha avuto un vero avversario fintanto che Chuck Daly non ha preso in mano i Pistons e soprattutto Phil Jackson è approdato a Chicago. Ma Daly era più anziano e la sua permanenza ai vertici della Lega è stata tutto sommato di breve durata. Così sono stati Riley e Jackson a imporsi prima che lo facesse Gregg Popovich che come personaggio non è nemmeno vicino alla statura degli altri due. Oggi abbiamo la sensazione che non ci sia in rampa di lancio un allenatore con quel tipo di carisma. I coach di maggiore personalità, più creativi, allenano nei college ma ormai si tratta di due lavori diversi. Billy Donovan ha flirtato con l’idea di passare alla NBA dopo due titoli NCAA a Florida ma si è chiamato fuori prima di farlo davvero. Rick Pitino prima di lui ha fallito. Mike Krzyzewsky non ha mai voluto provarci pur avendo avuto le offerte e le opportunità per farlo. Così abbiamo il sospetto che Jackson resterà l’ultimo dei mohicani. Con nove titoli a cinque, ha vinto più di Riley ma non siamo sicuri sia stato un miglior allenatore. Tutti e due hanno vinto con giocatori fantastici ovviamente ma i successi dei Lakers contro Sixers e Celtics abbiamo la sensazione valessero qualcosa di più dei sei titoli vinti dai Bulls. E Riley ha cominciato una decina di anni prima di Jackson, il suo regno è stato più lungo e ha costruito più squadre. Si tratta di giudizi soggettivi, intendiamoci. Dwyane Wade parlando di Riley ha detto una cosa molto interessante: “E’ stato lui a rendere figo fare l’allenatore”. E’ stato nella NBA il primo coach-personaggio, capace di trascendere il proprio ruolo e il proprio sport. Ma dietro queste etichette si nascondeva un lavoratore maniacale. Crediamo abbia sulla coscienza solo una partita importante, la settima della Finale NBA del 1994, ironicamente proprio quella che ha impedito a Ewing di vincere il suo titolo. Quella sera Riley aspettò per tutta la gara che John Starks si sbloccasse come era successo in gara6 quando era arrivato ad un tiro dalla vittoria, il titolo e la palma di Mvp della Finale. Ma Starks non si sbloccò, fece 2/18 al tiro e 0/11 da tre. I Knicks persero e il titolo andò a Houston. Riley ad un certo punto avrebbe dovuto tirarlo fuori e far giocare chiunque, Hubert Davis o persino l’appassito Rolando Blackman, ma non Starks. E tuttavia anche in quella scelta – sbagliata, l’ha ammesso lui stesso – si cela un allenatore che ha un sistema, ha delle convinzioni e non si piega mai. Riley cavalcò Starks fino alle estreme conseguenze perché era con Starks che era arrivato fino a quella partita. Fosse stato meno rigido nelle proprie convinzioni forse avrebbe vinto un titolo in più. La morale? Fosse stato un allenatore un pochino meno bravo, avrebbe vinto quella partita.
3. Dietro questa cerimonia ci sono tante storie particolari. Olajuwon si dichiarò per i draft NBA del 1984. Quella è l’edizione considerata la più grande di sempre. Olajuwon fu chiamato all’1, Michael Jordan al 3, Charles Barkley al 4, poi toccò più avanti a John Stockton. I Rockets scelsero Olajuwon un anno dopo Ralph Sampson e non ebbero mai grossi dubbi, ma se avessero davvero offerto Sampson ai Bulls avrebbero potuto avere anche Jordan. Rod Thorn, allora general manager dei Bulls, ha ammesso che per Sampson gliel’avrebbe dato. Come sarebbe cambiata la storia se Olajuwon e Jordan fossero arrivati insieme a Houston? Portland al numero 2 avrebbe scelto comunque Sam Bowie che ricordava molto Bill Walton, purtroppo anche nella fragilità fisica. In retrospettiva Jack Ramsay, allora coach dei Trail Blazers, ha ammesso che se fossero stati un po’ più svegli avrebbero preso Jordan pur avendo Clyde Drexler – arrivò un anno prima – dopodichè avrebbero potuto cedere Drexler e il veterano Jim Paxson per prendere il centro che non avevano. Ma avrebbero avuto Jordan. Ci siamo chiesti spesso cosa sarebbe accaduto invece se Patrick Ewing anziché tornare al college per il quarto anno si fosse dichiarato assieme a Olajuwon e Jordan. Ai tempi nostri sarebbe successo di sicuro. Houston avrebbe scelto comunque Olajuwon per una questione di campanilismo anche se Ewing era più quotato. Ma Portland, che voleva un centro, avrebbe preso Ewing, non Bowie, e siccome Chicago da una ricostruzione è emerso che non avrebbe mai preso Bowie, ecco che l’indirizzo di Jordan non sarebbe cambiato. I Blazers però avrebbero costruito il loro decennio successivo sulla coppia Drexler-Ewing. E forse avrebbero davvero cambiato il loro destino. E magari Drexler a fine carriera non sarebbe andato a Houston e chissà cosa sarebbe successo ai Rockets.
4. Mentre Riley veniva indotto nella Hall of Fame, per usare un’espressione americana (non si viene eletti ma inducted appunto), a 78 anni moriva Don Haskins. Si tratta dell’allenatore dell’università di Texas Western che nel 1966 portò al titolo NCAA un quintetto di soli giocatori di colore. Oggi sarebbe normale, nessuno lo noterebbe, ma quaranta anni fa fu un evento storico che ha ispirato anche il celebre film “Glory Road”. A incrementare l’impatto di quella partita fu il nome dell’avversario. Non solo Kentucky era una superpotenza del basket universitario – Texas Western poi diventata UTEP, ovvero Texas-El Paso, non lo era – ma l’allenatore, il leggendario Adolph Rupp, detto il Barone, era tanto bravo come coach quanto detestabile umanamente. Era considerato un razzista e non si vergognava di esserlo. Celebre l’episodio in cui telefonò ad un giornalista del New York Times chiedendogli di apporre un asterisco accanto ai nomi dei giocatori di liceo di colore così non avrebbe perso tempo a reclutarli. Tant’è che la squadra di Kentucky che perse la finale del 1966 aveva un quintetto tutto b
ianco. Uno dei migliori giocatori, ecco il legame, si chiamava Pat Riley. Per chiarire, Haskins ha allenato l’afroamericano Nolan Richardson che poi ha portato al titolo NCAA l’università di Arkansas, oltre a Nate Archibald, Tim Hardaway, Antonio Davis.
5. Una moratoria sulla nazionale appena travolta in Serbia è doverosa per evitare di essere ripetitivi. Ci sono arrivate numerose e-mail sull’argomento. Qui preme puntualizzare che in effetti andare a Belgrado con Amoroso e Di Giuliomaria come coppia di lunghi titolari e Gigi Datome da ala piccola – e non ha segnato! – non è proprio il massimo. L’elenco degli assenti è impressionante: Bargnani, Gallinari, Belinelli, Bulleri e Vitali (infortunati), Rocca, Hackett, Galanda, Marconato, Pecile, Basile se andiamo a considerare anche quelli che hanno più o meno chiuso con l’azzurro o sono rotti o sono stati ignorati. Ma restiamo dell’avviso che l’inevitabile maxiprocesso debba cominciare da una severa autocritica che deve partire dai vertici federali, passare attraverso l’allenatore (ha ottenuto il meglio dagli uomini che aveva?), i giocatori presenti (hanno fatto quello che potevano?) e infine anche quelli che non c’erano. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità. I giocatori che hanno incassato venti punti dalla Serbia sono gli stessi che quando vanno a trattare l’ingaggio con i loro club non fanno proprio professione di modestia e il monte salari della nazionale di questi giorni è come minimo il triplo di quello degli ungheresi che ci hanno battuto all’andata.
6. Un lettore si chiedeva la scorsa settimana cosa significasse “giochi proprio a Toronto” relativamente ad Andrea Bargnani e la preferenza dei Raptors affinchè saltasse l’impegno con la Nazionale. I Raptors, come avevamo spiegato poco prima, sono il club che ha di fatto perso Jorge Garbajosa per un anno a causa della nazionale, quindi è evidente che se c’è un club scettico e timoroso sotto questo aspetto è proprio quello di Toronto. Tra l’altro Calderon si è infortunato anche lui durante le Olimpiadi. Sarà sempre più difficile trovare un canale di comunicazione sgombro con quel club, se vogliamo essere realisti.