Il dottor Socrates, l’anima dell’Ottantadue

3 Agosto 2018 di Stefano Olivari

Come ultimo post prima di qualche giorno di stop consigliamo un libro che ci sembra riduttivo definire ‘per l’estate’, perché c’è dentro moltissimo oltre alla approfondita biografia di un campione che ci ha sempre affascinato. In ‘Il dottor Socrates’ (Milieu Edizioni, 2018) Andrew Downie tenta l’impresa di raccontare un uomo che è sempre stato raccontato attraverso luoghi comuni. Il calciatore-medico: vero che aveva studiato medicina nella sua Ribeirão Preto, ma non avrebbe visto mezzo ospedale in tutta la sua vera carriera di calciatore e anche dopo avrebbe praticato pochissimo, rimpiangendo il calcio. L’intellettuale di sinistra: in Sudamerica sotto una dittatura (e in Brasile c’è stata fino al 1984) chiunque agli occhi di un europeo sembra di sinistra, ma Socrates era attento soprattutto ai propri interessi e lontano dalla politica fino all’arrivo al Corinthians. Quanto alle letture, veniva da una famiglia in cui si leggeva molto ma era soprattutto un bravo orecchiante: amava la vita all’aperto e parlare fino a notte fonda con gli amici, per sua stessa ammissione. Il leader dello spogliatoio: è sempre stato la stella delle squadre in cui ha giocato, non dimentichiamo che era il capitano del Brasile in cui giocava il miglior Zico, ma tolto il periodo della Democracia Corinthiana si è sempre fatto i fatti propri. Perso fra birra, ai confini dell’alcolismo e spesso oltre, grigliate, gite in barca, musica, donne e figli in quantità industriale, ma anche decine dei classici amici del calciatore, che non ci si aspetterebbe di trovare nell’entourage di uno con l’intelligenza di Socrates. Era sì un leader, ma non di quelli che ti urlano in faccia la loro leadership: era un leader per chi lo capiva.

Downie, corrispondente della Reuters in Brasile, è chiaramente come noi innamorato di Socrates ma ha quel distacco necessario per raccontare il calcio brasiliano degli anni Settanta e Ottanta in cui Socrates si affermò: disorganizzazione totale dei campionati, incomunicabilità Rio-San Paolo a livelli massimi, giocatori truffati e sottopagati, rimpianto di un calcio idealizzato (ma anche reale, perché Pelé e Garrincha sono esistiti) il cui ricordo era ancora troppo fresco, una dittatura militare nemmeno paragonabile per durezza a quella argentina ma molto più lunga come durata e molto più penetrata nelle coscienze della classe media, al punto che un Socrates già adulto sosteneva cose del genere ‘Un calciatore deve pensare soltanto a giocare’. La Democracia Corinthiana, che ebbe il suo periodo di gloria nel 1982-83, sarebbe stata proprio il contrario di questa filosofia: i calciatori capeggiati da Socrates, con Adìlson, Wladimir e Casagrande fra i più attivi, decisero di prendere in mano il Corinthians non per ammutinarsi nei confronti dei dirigenti ma semplicemente per stabilire che a uomini maggiorenni non si può imporre di andare in ritiro, di non concedere interviste, di comportarsi in un certo modo fuori dal campo. La Democracia ebbe effetti calcistici, visto che di fatto la squadra si autogestiva, ma ne ebbe soprattutto di politici. Era un grido di libertà, che in quel momento veniva lanciato nel Brasile sotto dittatura ma che sarebbe attualissimo anche oggi, anche in Europa. Con i milioni si comprano le prestazioni in campo, ma non la vita fuori e meno che mai l’anima. Nella testa di Socrates chi accetta lo status quo è uno schiavo, senza nemmeno che se ne renda conto: un concetto semplice, ma ditelo ai tifosi che invocano ritiri di un mese per un pareggio.

Con la fine di quell’esperienza, che ad alto livello (ma senza politica) aveva avuto qualche precedente nell’Ajax di Kovacs dopo la partenza di Michels per Barcellona, e la fine della dittatura, per Socrates arrivò il momento di trasferirsi in Italia, in quel momento il posto dove bisognava essere. Non era troppo convinto del trasferimento, inserito com’era in uno stile di vita incompatibile con l’Europa, ma accettò la sfida anche se alla Fiorentina ebbe subito problemi con i Pontello. Fu più comunista qui che in Brasile, almeno formalmente, visto che partecipò a qualche dibattito del PCI locale, ma soprattutto fu stritolato dalle logiche del calcio italiano. La squadra allenata prima da De Sisti e poi da Valcareggi (!) era nettamente spaccata in due, c’erano la fazione di Pecci e quella di Passarella: l’antipatia era degenerata con il rifiuto plateale, lo racconta Socrates e rivedendo i vecchi Novantesimo Minuto si vede tutto in una luce nuova, di passare il pallone a un componente della fazione rivale, con effetti ovvii sui risultati. In mezzo c’era Socrates, che faceva il suo senza legarsi a Pecci o a Passarella, invidiato per l’ingaggio ma di fatto escluso da entrambi i gruppi. Di sicuro pagheremmo cifre folli per una registrazione dei dialoghi di Socrates, ma anche di Passarella, con Valcareggi. Un’annata da dimenticare, fra i lazzi dei giornalisti che non vedevano l’ora di sfottere questo intellettuale che in campo camminava. Ma di correre non aveva bisogno…

Inutile girarci intorno: per noi italiani Socrates era e sarebbe rimasto quello del Brasile 1982 di Telé Santana, la squadra più bella di tutti tempi. Non la più forte a non avere vinto il Mondiale, ce ne vengono in mente di migliori (Olanda ’74 e Ungheria ’54, solo per citarne due che non è possibile discutere), ma l’ultima a rappresentare un’idea di calcio romantica e al tempo stesso stereotipata, lontana anche dal calcio brasiliano di quei tempi, pieno di ottimi atleti e di allenatori-ginnasiarchi che volevano scimmiottare il calcio europeo. In quel contesto si vide il miglior Socrates, delicato ed essenziale, leader di un gruppo di stelle che ne riconoscevano l’autorità essendogli in alcuni casi anche amiche (molto forte e sincero il legame con Zico). La partita della vita fu persa per vari motivi: perché si incrociò un’Italia fortissima, perché il giovane Careca si fece male prima del Mondiale e troppe grandi occasioni capitarono sui piedi di Serginho, perché il calcio è così e non sempre si possono trovare spiegazioni. Senz’altro ridicola, secondo Socrates, la spiegazione tattica, il famigerato Brasile che avrebbe cercato la vittoria senza averne bisogno. Il gol del 3-2 di Paolo Rossi nacque da un calcio d’angolo arrivato dopo un disimpegno sbagliato di Toninho Cerezo nella sua area, altro che Brasile buttatosi in avanti…

Il libro è ricco di testimonianze di prima mano e molti dei pensieri di Socrates sono ricavati non dalle rassegne stampa, ma da una sua autobiografia mai pubblicata e messa a disposizione dall’ultima moglie, Katia Bagnarelli. Davvero interessante la parte del dopo-calcio, una lenta discesa piena di rimpianti e di occasioni non colte, il tutto avvolto in un’amarezza di fondo: senza calcio anche una persona dai molteplici interessi come Socrates si sentiva persa, senza uno scopo. Al punto che quando è arrivato il momento di morire non ha resistito più di tanto, né si è curato in maniera accanita (anzi, faceva l’opposto di quanto gli dicevano i ‘colleghi’). Una persona tormentata e profonda, di sicuro contraddittoria. Però anche uno che trasmetteva qualcosa di grande, semplicemente alzando la testa. Ci piace ricordare il discorso fatto dal Dottore ai suoi compagni di squadra in albergo, dopo il mesto ritorno dal Sarrià: “Ragazzi, possiamo anche avere perso una partita, ma l’importante è non perdere ciò che abbiamo costruito. Questa incredibile coesione sarà nostra finché vivremo. Ed è l’unica cosa che conta”. Ecco, chi a questo punto non piange non può capire né Socrates né ciò che rappresenta.

Share this article