Il Borghese Feltri si è rotto le balle

26 Ottobre 2018 di Stefano Olivari

Tutti sanno chi è Vittorio Feltri, icona dei talk show politici nonché uno dei pochi giornalisti di destra ad avere per tempo intuito il crollo di Berlusconi e il boom nazionale di una Lega che 5 anni fa era quasi scomparsa. Ma il Feltri che emerge da ‘Il borghese – La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato’ è un Feltri meno conosciuto di quello dilagante su ogni canale, ormai senza freni inibitori, non fosse altro che perché questa autobiografia è riferita quasi totalmente alla sua vita nella carta stampata. Da cronista vero ma soprattutto da grande direttore di giornale che sul serio ha iniziato facendo il cronista, cosa che raramente avviene in Italia, dove spesso i direttori si occupano soltanto di pubbliche relazioni al punto che di alcuni di loro, anche di grandi testate, non si ricorda una riga o una frase. Rispetto a loro Feltri gioca davvero in un altro campionato.

‘Il borghese’, chiaro riferimento al settimanale fondato da Leo Longanesi, è uno strano e un po’ troppo breve (90 pagine) libro, autocelebrativo il giusto ma anche pieno di pudori, racconto di una vita con partenza ad handicap ma radici bergamasche solide (bellissima la parte sulla zia) che gli hanno poi fatto mettere nella giusta prospettiva gli incontri con chiunque, famoso o sconosciuto che fosse. Anche con politici dei quali è incredibilmente diventato amico, primo fra tutti un Ciriaco De Mita che a prima vista sembrerebbe l’essere del pianeta più lontano da Feltri.

Molti capitoli sono dedicati ai grandi giornalisti con i quali Feltri si è rapportato come sottoposto, come collaboratore, come collega e in certi casi anche come direttore. Direttore lo è stato dell’Europeo, dell’Indipendente, del Giornale, del Quotidiano Nazionale e di Libero, dove è tornato dopo averlo fondato nel 2000. Oriana Fallaci, Montale (al Corriere della Sera), Biagi, Montanelli, Afeltra, Bocca… I capitoli dedicati ai politici sono invece per Andreotti, Fanfani, De Mita e Craxi. Il rapporto con la Fallaci è quasi un libro nel libro, pochi hanno saputo tratteggiare la più grande giornalista italiana di sempre (e in vetta anche in una classifica comprendente entrambi i sessi) con un tale misto di durezza e affetto, frutto entrambi di lunga frequentazione.

Meno emotivamente intense ma più divertenti le parti su Biagi, Montanelli e soprattutto Gaetano Afeltra, personaggio possibile solo nella carta stampata, capace dell’impossibile impresa di trasformarsi da uomo-macchina in scrittore. Rispettoso del lavoro e del successo di tutti, Feltri, ma si capisce che il suo cuore batte per Bocca: non certo uno con le sue idee politiche e nemmeno un suo amico (mentre in tempi diversi lo sono stati Biagi e Montanelli, almeno fino all’entrata in politica di Berlusconi), ma uno che sapeva dare al lettore sempre qualcosa in più e non soltanto ciò che il lettore si aspettava di leggere da Bocca. Se Biagi era secondo Feltri in fondo un orecchiante (viene in mente la famosa definizione di Bocca: “Una media azienda bene avviata”) attento al suo pubblico e Montanelli soprattutto un artista del giornalismo, slegato dalla notizia e a volte dalla realtà, Bocca univa una prosa coinvolgente a una lettura dei fatti mai banale e a volte non coerente con la linea dei suoi giornali. Sempre con un atteggiamento fascista, dice Feltri, nonostante (o forse proprio per) il passato più volte ricordato da partigiano.

Gli appassionati di retroscena del giornalismo, e noi siamo fra questi, non rimarranno delusi, mentre si rimane perplessi di fronte ai capitoli sui politici, un po’ tirati via e con un certo calore solo nei confronti di Craxi, attaccato a testa bassa agli albori di Mani Pulite ma poi rispettato nel momento del linciaggio mentre altri con le sue colpe si limitavano a cambiare nome al partito. Il capitolo più feltriano è però quello sui lavori davvero svolti nella vita, prima di potersi dedicare al giornalismo a tempo pieno: fattorino, commesso, vetrinista, pianista di piano bar fino allo sbocco meno alla Feltri che uno si immagini: un concorso per un impiego pubblico, vinto, alla Provincia di Bergamo, ufficio entrate, cercando intanto di collaborare all’Eco.

Salvato dalla Notte di Nino Nutrizio, indimenticabile quotidiano milanese del pomeriggio, dal Corriere della Sera e poi da tutti i giornali e televisioni in cui Feltri avrebbe lavorato. Poco presente e con qualche omissione (tanto valeva non parlarne) la vita privata, molto presente la carriera. Se c’è un filo conduttore nella sua è che lui ha sempre considerato, in teoria e in pratica, il giornalismo come un lavoro. Non un’arte, un un hobby, ma un lavoro. Un concetto di cui molti suoi colleghi si vergognano e che viene astutamente cavalcato anche da molti editori, felici di non pagare studenti trentacinquenni che vivono dai genitori, impiegati statali con il pomeriggio libero, casalinghe disperate al punto di scrivere articoli per 3 euro. Nel momento in cui il giornalismo è diventato per molti un hobby la qualità è scesa paurosamente, ma questo non è più un problema di Feltri. Che per questo libro sarà stato anche pagato tanto dalla Mondadori, ma con il suo patrimonio di conoscenze avrebbe potuto scriverlo molto meglio. Feltri si è rotto le palle, lui direbbe le balle, ma non è colpa nostra.

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