Il bambino Sandro Gamba

19 Luglio 2012 di Stefano Olivari

Finire ‘Il mio basket’ durante l’ultimo viaggio in metropolitana e cinque minuti dopo sbattere, proprio fisicamente, contro l’autore. Non è un grande aneddoto, bisogna ammetterlo, però giuriamo su quanto abbiamo di più caro (il gatto Biro, nostra moglie non si offende perché anche per lei è la cosa più importante) che si tratta di un aneddoto per una volta vero. Questa mattina a Milano, in piazza Cordusio, ci è davvero capitato di incrociare Sandro Gamba poco dopo avere terminato la lettura del suo libro (scritto con Vanni Spinella per Baldini & Castoldi). Abbronzatissimo, con il bastone per il problema all’anca ma in buona forma per essere un quasi ottantenne, il coach ha tirato dritto per la sua strada e non ci ha riconosciuto…

Il libro è valido, pur avendo per chi segue la pallacanestro da decenni il sapore strano del già letto e del già sentito. Qualche anno fa, poi, di Gamba era uscita un’altra autobiografia (scritta con Flavio Suardi), ‘Il signore del basket – Da via Washington alla Hall of Fame’. Sinceramente ci era piaciuta di più quella, molto personale, in cui si raccontavano benissimo lo spirito del dopoguerra italiano, una Milano che abbiamo conosciuto solo per sentito dire, il valore dello sport in senso ampio e la complessità del suo rapporto con Cesare Rubini. Maestro di Gamba, ma paradossalmente anche allievo (Rubini era il primo ad ammettere di sapere pochissimo di tattica e di schemi). Se lì veniva fuori meglio il Gamba giocatore e giovane allenatore, nel nuovo libro il protagonista è il Gamba coach di notorietà internazionale. Molto centrate le parti sui suoi rapporti con i grandi allenatori di college, soprattutto con Bobby (in realtà nessuno in America lo ha mai chiamato Bobby, nome da cane, ma Bob) Knight ma anche con Dean Smith, Lou Carnesecca (sei mesi fa siamo stati alla Carnesecca Arena, nel Queens, per una partita di St. John’s e l’apparizione dell’87enne ex allenatore è stata qualcosa di mistico: almeno nello stupore ci sentiamo molto gambiani, per questo abbiamo ‘sentito’ questa parte), eccetera, per essere più avanti degli altri nella vecchia Europa. Per contratto, infatti, Gamba era disposto a rinunciare a soldi pur di avere garantiti frequenti viaggi di studio negli Stati Uniti. Da qui nasce la stima vera di molti santoni nei suoi confronti, quando il basket di college dettava la linea tecnica e filosofica a quello dei mestieranti più o meno di lusso.

L’impostazione è infatti molto da coach americano che vuole trasmettere qualcosa: non la miniera di storielle tipica del 90% dei libri sul basket (schema peraltro comprensibile: avendo la presunzione che ci sia un lettore informato, si cerca di sorprenderlo con il retroscena), bensì la spiegazione di comportamenti che dall’esterno possono sembrere inspiegabili ma che in una squadra (Gamba odia il termine ‘gruppo’) sono necessari anche solo per la semplice convivenza. Il cuore dell’opera è nel racconto del suo periodo (in realtà periodi, dai Giochi di Mosca agli Europei del 1985 e dal preolimpico del 1988 a quello del 1992) alla guida della Nazionale, la squadra che ha sentito più sua, con l’Europeo del 1983 che supera come intensità di emozioni anche altri grandissimi traguardi come le Coppe Campioni (due, nel 1975 e nel 1976) vinte con Varese e lo stesso argento olimpico che fu il frutto di un’impresa (la vittoria sull’Unione Sovietica) ma anche dell’incredibile concatenazione di risultati che portò alla necessità di vincere con Cuba di sette punti, non uno di più né uno di meno.

In sintesi, un Gamba per tutti. Senza tecnicismi e senza dare troppe cose per scontate. Come nell’altra autobiografia, nei suoi articoli e in tutte le situazioni della sua carriera, esce il ritratto di un uomo corretto, uno studioso vero del basket che però ha voluto coinvolgere altri nella sua scienza con lo spirito dell’evangelizzatore e non del sapientino. Commovente nel suo entusiasmo, a quasi settanta anni di distanza, quando in una Milano distrutta dai bombardamenti vide esibirsi una raccogliticcia squadra italiana, quel che rimaneva della Borletti, con canottiere di fortuna, contro una selezione della Quinta Armata dell’esercito statunitense con una bellissima tuta rossa fuoco. Il dodicenne bambino Sandro rimase incantato da quelle maglie, che ispirarono quelle dell’Olimpia di qualche anno dopo, ma soprattutto da quello sport. Non ha ancora smesso e non smetterà mai.

Stefano Olivari, 19 luglio 2012

 

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