I due tempi di Joe Cocker

23 Dicembre 2014 di Paolo Morati

Joe Cocker

E così anche Joe Cocker se n’è andato. Non abbiamo finito di metabolizzare la scomparsa di Pino Mango, che ci ritroviamo di nuovo fare i conti con la nostra storia di appassionati di musica questa volta per ragionare su una vera icona del rock internazionale. Soprannominato ‘Il leone di Sheffield’, il grande interprete (più che autore) inglese ha dunque smesso di ruggire a 70 anni, dopo una carriera ultra quarantennale fatta di cadute e resurrezioni. Non ci sembra il caso di stare a riassumere in modo cronologico quella che è stato il percorso artistico di un personaggio così atipico e grande, che anche per ragioni anagrafiche abbiamo scoperto solo grazie al periodo del ritorno negli anni Ottanta del (ahinoi) secolo scorso, grazie anche al tema di Ufficiale e Gentiluomo (Up where we belong) e a quello di 9 settimane e ½ (You can leave your hat on, riproposizione di un brano di Randy Newman).

Joe Cocker è di fatto stato un modello di riferimento per tanti artisti, emerso nel momento del cambio di passo della musica, quello imposto dai Beatles dei quali fu anche un grande inventore di cover, a cominciare da quando stravolse (e si stravolse lui, in primis) With a little help from my friends, trasformandola da una sorta di marcetta (con tutto il rispetto) a un poderoso brano emozionale tirato e rallentato ai limiti dell’esasperazione vocale. Il suo era un urlo a volte sussurrato, a volte graffiante, accompagnato sul palco da movenze delle braccia e del corpo tutto a inseguire e raccogliere l’energia invisibile sprigionata dagli strumenti, che trovò una testimonianza filmata indiscussa con la sua esibizione al concerto di Woodstock del 1969, una leggenda del periodo. È in quel momento che si ha una visione a colori del primo tempo di Joe Cocker, quello oltre le righe del pentagramma vitale, che riuscì a trovare la strada per imporsi anche negli Stati Uniti. E la patria del Blues, del R&B e del Soul, lo accolse a braccia aperte. La storia poi continua, tanti i concerti così come gli eccessi tra alcol e droga, la depressione, i difficili anni Settanta e il ritorno sulle scene, con un aspetto sostanzialmente cambiato, vissuto ma riordinato e per nulla arreso.

Finito l’intervallo, addome in evidenza, calvizie, barba: era tutto tranne l’immagine di un uomo da copertina di plastica, non certo un volto e fisico da riscossa il suo. Eppure c’era ancora quella voce straordinaria che nel frattempo si era fatta ancora più pastosa e che riemergeva, distruggendo quella che potevano essere i pregiudizi su una persona ormai a cavallo dei 40 anni, arrampicatasi fuori dal baratro. È questo il secondo tempo di Joe Cocker, aiutato dalla moglie americana Pam con la quale viveva in un ranch nel Colorado, dopo la sbornia del successo e del successivo tracollo, sorridente e ancora e come sempre statico sul palco, nuovamente attorniato da tanti musicisti perché lui la musica la voleva vera e non frutto di campionamenti e registrazioni. Anche con canzoni più ‘soft and soul’, al limite del pop rock, come When the nigh comes o What are you doing with a full like me, oltre alle sempre amate cover e ai motivi black.

In tanti decenni le interpretazioni più belle e acclamate di Joe Cocker hanno incluso Shelter me, Unchain my heart, She came in through the bathroom window, You are so beautiful, Delta Lady, High time we went. Tutte grandiose, certo, ma in questo attimo del fischio finale chissà perché, di botto, ci sentiamo di suggerire per primo un brano minore: Hymn for my Soul, del 2007, che diede il titolo all’omonimo album. Niente supplementari, questa volta, Joe. La partita l’hai vinta. God bless you.

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