Cinema
I carati di Lilli
Enrica Panzeri 22/10/2014
Esistono vite di alcuni protagonisti dello spettacolo più avvincenti e toccanti dei film da essi interpretati. Quella di Lilli Carati ne è un esempio, ovvero l’altra faccia della luna composta da lustrini e paillets. Quasi il paradigma di quel tipo di storie che la gente ama leggere per potersi beare della propria normalità, scrutando il mondo dello spettacolo come fosse un pianeta alieno e lontano. La vita di Lilli Carati sembra il contenitore di tante esistenze.
La prima, cullata dalla quotidianità della medio borghesia varesina, termina una volta indossata la fascia di Miss Eleganza durante l’edizione di Miss Italia del 1974. Il concorso all’epoca rappresenta ancora una corsia preferenziale per imboccare la strada verso il cinema e i sogni di notorietà e benessere ad esso legati. Lilli Carati possiede una bellezza esuberante e anomala: colori profondamente mediterranei si sposano a lineamenti raffinati, creando così un contrasto fra un fascino delicato e una sensualità quasi primitiva. Il suo esordio nel cinema è quasi immediato e per ottenere parti di rilievo non deve attendere molto tempo. Si ritrova a partecipare a numerose pellicole, alcune dirette da registi apprezzati dalla critica, come Lina Wertmuller, altre, quelle che le daranno fama, appartenenti al genere sexy-comico.
Negli anni Settanta il movimento femminista in Italia pare raggiungere il suo apogeo, penetrando profondamente nel tessuto sociale, ma arrivando poi a sfiorare evidenti forzature che, oltre ai cambiamenti reclamati, portano confusione nella gente comune. Il cinema popolare intercetta perfettamente gli umori timorosi dei maschi italiani. Sullo schermo appaiono quindi donne stupende calate in ruoli quali l’infermiera, l’insegnante, la poliziotta; lontanissime dalle loro corrispettive comuni, in una voluta esasperazione dello iato fra sogno e realtà. Lilli Carati incarna prima la compagna di banco e poi l’insegnante che qualunque studente italiano auspicherebbe avere accanto.
È alla fine del decennio che però interpreterà la pellicola che la farà ricordare anche a spettatori che, al momento dei primi ciak, non erano nemmeno nati. Fernando Di Leo, autore di “poliziotteschi” coraggiosi e sperimentali omaggiato in seguito da Quentin Tarantino, decide di girare una pellicola anomala, provando a immergersi nel clima della contestazione giovanile e nelle mutazioni delle aspirazioni e dei comportamenti femminili. Nasce così “Avere vent’anni”, atipico coacervo di commedia e dramma, il cui messaggio di denuncia verrà notevolmente edulcorato dalla censura con una modifica del finale originario, pessimista e disperato. Singolare il destino delle due protagoniste: mentre Gloria Guida proseguirà la sua scalata, dalla serie B al teatro, alla televisione e alle commedie di serie A, Lilli Carati comincerà a sdrucciolare lungo il declivio che la porterà alla tossicodipendenza, al carcere, ai tentativi di suicidio e ai porno, girati per procurarsi la droga.
Oltre al suo aspetto da sex symbol infatti, porta a Roma anche le ingenuità di una ragazza di provincia e il candore delle donne molto belle, abituate a ricevere gratificazioni senza doversi adoperare eccessivamente per ottenere i propri obiettivi. Nell’ambiente dello showbusiness di quegli anni il suo destino appare quasi segnato. Restano due immagini emblematiche di quei momenti. La prima la vede ospite del contenitore TG l’Una, in onda dopo il telegiornale delle 13.30 su Rai 1. La maggioranza degli spettatori, che iniziano ad osservare nei parchi sotto casa e ai bordi delle strade gli effetti dell’eroina, assistono increduli ai giochi di parole di Romano Battaglia su gomme “bucate” che sottolineano i primi piani di una Carati dolorosamente alterata dagli stupefacenti, con occhi tanto dilatati da sembrare due pozzi neri.
La seconda è un fotogramma a caso de Il corpo della ragassa, girato dal suo fidanzato dell’epoca, Pasquale Festa Campanile, specializzato in relazioni con attrici seducenti. Sebbene il titolo paia alludere alle pellicole coeve di serie B, l’opera è tratta da un romanzo di Gianni Brera e porta con sé ambizioni “alte”, sebbene la critica non apprezzerà. In esso si muove un sulfureo Enrico Maria Salerno, obbligato ad accettare qualsiasi tipo di lavoro anche per poter sostenere i problemi economici che gli derivavano dalla tossicodipendenza del figlio Nicola. Sembra dipanarsi in controluce un filo sottile, intessuto dall’eroina, a legare e accomunare uno dei più grandi attori italiani del dopoguerra, inguaiato in parti mediocri, e la giovane attrice che, entro pochi anni, scivolerà sempre più in basso per potersi procurare una dose.
La sua discesa si arresterà proprio in seguito una caduta dal balcone della casa dei suoi genitori. Dopo questo tentativo di suicidio decide di disintossicarsi. Entra nella comunità di Mauro Rostagno, figura incredibile che solo dagli anni Settanta avrebbe potuto emergere: contestatore sessantottino nell’Università di Trento, co-fondatore di Lotta Continua e poi trasfuga inorridito dalla violenza propagatasi, arancione in India e, al ritorno in Italia, autore dell’esperimento del centro Macondo a Milano, in cui sperimentare una soluzione nuova e diversa al problema della droga, fino alla creazione del centro per la disintossicazione Saman in Sicilia, luogo dove verrà ucciso con un’esecuzione dai contorni mafiosi. Nel momento dell’assassinio i riflettori si posano nuovamente su Lilli Carati, la quale reagisce infastidita da questa nuova notorietà che rischia di rovinare la nuova esistenza che si è costruita.
Saranno la riscoperta operata da Tarantino e la proiezione a Venezia di Avere vent’anni a riportarla alla ribalta. Scopre che il pubblico prova un’istintiva simpatia nei suoi confronti. Le persone non sono più attratte dalla sua bellezza, bensì dal piacere che si prova nel sentire la narrazione una vita composta da tante esistenze di ascese, smarrimenti e crolli. Trascorsi anni nell’oblio, decide di rientrare nel mondo dello spettacolo, guidata non più dalla frenesia di chi vuole afferrare qualsiasi promessa, bensì dalla calma di chi sente di essere sopravvissuto e può quindi godere la pienezza di ogni istante. Conclude il suo ultimo film, La fiaba di Dorian, respingendo gli agguati di una malattia che, improvvisa, si manifesta proprio quando sembra aver cominciato l’ennesimo ciclo della sua esistenza. E lascia dietro di sé un misto fra il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato e la testimonianza che, fino all’ultimo, ad ogni caduta può seguire una rinascita.