I capelli di Renato Zero

20 Maggio 2020 di Paolo Morati

Renato Zero è andato dal barbiere. È questa una delle notizie circolate ieri sulla riapertura delle attività commerciali, compresi i parrucchieri o appunto barbieri (rigorosamente per maschi) che dir si voglia. Un buono spunto per parlare delle diverse fasi dei capelli del “re dei sorcini” e indirettamente della sua evoluzione artistica.

Un personaggio, Renato Zero, di cui abbiamo recensito lo scorso anno l’ultimo album e che noi riteniamo uno dei pochissimi in Italia, insieme a Vasco Rossi, ad essere categorizzabile come leggenda, con una una base di adepti (è il caso di dirlo) trasversale e cross-generazionale. E questo forte di una prorompente personalità e di un repertorio capace di esplorare storie, emozioni e sentimenti in grado di creare una profonda identificazione.

Dopo alcune foto d’epoca quando, già giovanissimo amante del travestimento, sfoggiava anche un taglio alla Beatles e un paio di baffi, nelle prime interviste a metà degli anni Settanta lo vediamo magro magro con una capigliatura già lunga sulle spalle. È il Renato Zero di No! Mamma, no!, il primo album, aperto (è il caso di dirlo) con quello che sarebbe poi diventato un suo classico: Paleobarattolo, dove canta “Sai cos’è, che non va, chiudere in scatola la libertà. Non ci sto, vado via, cerchiamo scampo nella fantasia”. Dopo il successivo Invenzioni, nel 1976 arriva Trapezio, primo vero successo commerciale del nostro, contenente la celebre Madame: “Se l’amore cieco, va… e non guarda dove va, rassomiglia un poco a me, Madame!”

I capelli di Renato Zero sono ormai celebri quanto lui, essendo diventati un’icona di immagine nel mezzo di colori, travestimenti e luci, e via via album e canzoni che scalano le classifiche. Da Mi vendo a Il cielo, passando per Triangolo e La favola mia, fino a Il carrozzone, gli anni Settanta sono quelli dell’affermazione come ‘capellone’ alternativo ai ‘capelloni’ (termine che può avere sentito con le proprie orecchie soltanto chi ha dai 40 anni in su) cantautori amati dalla critica, lui che invece si rifugia sotto il tendone Zerolandia per poter ricevere il suo pubblico.

Renato Zero è sempre più icona e il decennio successivo si apre così come si era chiuso, stesso look e grandi canzoni a cominciare da Amico, brano simbolo del cross-generazionale di cui dicevamo prima, a Niente trucco stasera (“Ti ho cercato? Ti ho inventato? Divertito, amato. E vestito, da Pierrot, ho riso e pianto, più di un po‘”) per arrivare poi ai pieni anni Ottanta. Quelli anche televisivi di Soldi e Viva la Rai, della evocativa Spiagge (siamo nel 1983) dove osa intonare “Un’altra estate qui e un’altra volta qui, più disinvolta e più puttana che mai” mentre appoggia le mani sui capelli rigonfi.

Dopo qualche album interlocutorio, che non lasciano il segno come quelli precedenti, Renato Zero dà un taglio al passato (e solo apparentemente ai capelli) comparendo sulla copertina del doppio disco intitolato Zero, pettinato all’indietro, tra gel o brillantina, per poi invece comparire in TV con un ciuffo a metà tra metallaro e rockettaro del decennio in corso.

C’è un cambiamento in corso, che sembra destabilizzare il pubblico, ma ecco che nel 1989 esce Voyeur, che lo riporta finalmente alla ribalta. Stirati e spostati di lato i capelli, la title rack resta nella memoria degli ascoltatori: “La mia curiosità non ha sesso e non età, forse è per questo che successo ha se ti ferirà, colpevole non è, in un mondo di voyeur”. È il primo segno di una risalita sancita dal secondo posto a Sanremo con Spalle al muro nel 1991. Arrivato in sordina, Renato Zero fa sue in modo epico le parole e la musica firmate da Mariella Nava, presentandosi in un look total black, avendo da tempo abbandonato i travestimenti, e con capello accorciato e meno esibito. È standing ovation del pubblico, dimostrando che il re dei sorcini ha ancora il suo tocco magico.

Da lì Renato Zero via via riconquista il palcoscenico, ampliando la propria platea tra nonni, genitori e nipoti, destinato nei decenni successivi a diventare una sorta di grande saggio della canzone italiana, mentre anche la critica comincia ad accorgersi di lui osservandolo con meno diffidenza. Nel 1995 l’album Sulle tracce dell’imperfetto, trainato da I migliori anni della nostra vita, è la definitiva riconsacrazione. E mentre la chioma continua ad allungarsi e accorciarsi a seconda dei tempi, quell’incipit “Penso che ogni giorno sia come una pesca miracolosa , e che è bello pescare sospesi su di una soffice nuvola rosa” apre la strada a tanti altri dischi e concerti, veri e propri raduni di folla, per “tornare ragazzi e crederci ancora un po’”. Con o senza chioma al vento.

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