L’arte di Tiemen Groen

18 Novembre 2014 di Simone Basso

Ricomincia da Tlaquepaque, Guadalajara, la Coppa del Mondo della pista; minimale per gli appuntamenti proposti, non nelle sfide. La vernice autunnale nei velodromi c’era già stata con le Sei Giorni: a fine Ottobre, in quel di Amsterdam, si sono imposti Niki Terpstra, l’ultimo vincitore della Roubaix, e Yoeri Havik. Da noi, in Italia, l’universo della pista è – mediaticamente – roba da carbonari. Ennesimo bigliettino nietzschiano dello stato (culturale) delle cose, di un mondo che sogna la Ryder Cup a Roma (il golf!) e che costringe l’attività di base (di qualsiasi sport) ad arrabattarsi per sopravvivere…

Tornando all’anello, continuiamo a maledire l’esclusione dal programma olimpico della corsa a punti e dell’inseguimento individuale. Uno sfregio alla storia. Una proposta miope, sbilanciata verso le fibre bianche (sprint, velocità a squadre, keirin) e punitiva nei riguardi della tradizione che, più di ogni altra, si impollina colla strada. L’inseguimento, specialità nobile che con un filo rosso collega Coppi e Wiggins, passando attraverso Patterson, Messina, Riviere, Altig, Faggin, Porter, Knudsen, Macha, Oersted, Ekimov, Boardman. Da questa lista solitamente si evira, per ignoranza, il nome di uno degli atleti più incredibili apparsi su una bici… Tiemen Groen.

Accade, non solo nello sport: l’arrivo di un genio, di un prodigio, stabilisce nuovi standard. Il fuoriclasse della Frisia bissò l’arcobaleno a San Sebastian (1965) e realizzò la tripletta – incamerando pure il primato mondiale (4’50″21) – a Francoforte. A soli ventun’anni, l’esordio tra i professionisti fu un trionfo. A casa – Amsterdam 1967 – regolò due califfi come Hugh Porter (che di anni ne aveva ventisette) e l’indimenticabile Leandro Faggin. Eppure quell’affermazione allo stadio Olimpico non fu un passaggio di consegne, bensì la chiusura di un ciclo. Il suo, fulmineo e imprevedibile negli sviluppi. Il 31 Gennaio 1969, dopo una stagione sfortunata, Groen diede l’addio all’agonismo. Deluso dal tradimento contrattuale della sua equipe, la Caballero, che lo ingannò sul prolungamento dello stesso.

In fondo il ciclismo era una passione, anzi un mestiere, ma nella sua vita arrivava dopo la pittura e gli oggetti d’arte. Aprì un negozio di antiquariato e cominciò a viaggiare. Dal 1986, per un decennio, girò il mondo (l’Europa, l’America, l’Africa..) con un camion e un camper, commerciando antichità… Nel 1995, innamoratosi del Sudafrica, si trasferì definitivamente a Città del Capo. Un personaggio singolare, unico, che è stato – per qualche tempo – un fenomeno del ciclismo. Alcuni, noi compresi, coltiveranno il rimpianto di comprendere dove il suo talento – straordinario – lo avrebbe portato: di certo non Groen.

1968… Nei Paesi Bassi vanno forte le kermesse cittadine, con un circuito (condito da ricchi premi) che le regola. L’ultima della serie era a Katrendrecht, nel quartiere a luci rosse (ora demolito). Gli atleti, nemmeno fossero ballerine di localacci, si cambiarono in un caffè. Pioveva e migliaia di spettatori erano lì per vedere i mammasantissima dell’epoca: Rik Van Looy, Peter Post, Harry Steevens, Eef Dolman… Gente tosta. Tiemen rifece quella volta, memorabile, di Zandvoort oppure Bolsward (1962). Lo scherzo della natura davanti e i ras a menare, con la bava alla bocca, dietro. Non lo ripresero. Van Looy, l’Imperatore, uno con un’alta opinione di se stesso, nel dopogara andò incontro a Groen e gli chiese, scherzando ma non troppo: “Diavolo, ma tu sei umano?”

(Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto)

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