Gli ultras di Missouri e Kansas

28 Novembre 2007 di Roberto Gotta

1. Già altre volte, da agosto in poi, in questa rubrica si è detto che il Commissioner Roger Goodell si è trovato alle prese con una grana dopo l’altra. Ne è uscito finora in maniera piuttosto brillante, affrontando i problemi, quasi tutti di natura disciplinare (per la NFL) o criminale (per la legge ordinaria) nella maniera migliore in cui lo si possa fare nei paesi civili, ovvero con la severità. Inutile aggiungere che la morte di Sean Taylor (nella foto), il safety dei Washington Redskins ucciso in casa nel corso di una sparatoria, è un altro macigno. Prima di esserlo per Goodell e la NFL, naturalmente, lo è per parenti e amici del giocatore, che giustamente se ne strafregano delle conseguenze per la Lega, e piangono un essere umano che non c’è più. Fino a che le circostanze e le cause esatte della morte non saranno chiare del tutto è totalmente inutile fare considerazioni specifiche, aggiungiamo solo che per certi versi ci è venuto in mente l’episodio della morte di Gabriele Sandri all’autogrill. Ovvero, evento tragico, disperante per la famiglia e gli amici, che però può essere ascritto a circostanze del tutto particolari e fortuite, e non legate allo sport di cui Sandri era appassionato e Taylor (ottimo) giocatore. Anzi, nel caso del tifoso laziale un minimo di incidenza pseudo-sportiva c’era, nella rissa che ha determinato l’intervento del poliziotto che ha sparato il colpo di pistola, mentre la situazione di Taylor è probabilmente – ripetiamo: probabilmente -connessa alla vita privata del giocatore, alle sue amicizie, che nulla a che fare con lo sport avevano. E’ noto che il ragazzo aveva avuto problemi fuori dal campo, aveva conoscenze non tranquille e prima di una recente, decisa svolta di maturità pareva rappresentare il classico esempio di sportivo che raggiunta la notorietà fa di tutto per restare appiccicato alle proprie radici, il “keepin’ it real” di cui si parla (o parlava: non siamo esattamente alla frontiera del linguaggio giovanile), il dimostrare di essere persone vere perché non si abbandonano gli amici, neanche i peggiori, magari perché si sa bene che senza doti atletiche la loro sorte sarebbe stata condivisa. I seminari pre-campionato che la NFL e le altre leghe organizzano per istruire i nuovi arrivati su tutti gli aspetti della vita da atleta professionista contengono ben evidente il consiglio di tagliare i ponti con il passato, se questo può portare guai, ma è chiaro che la teoria e la pratica scivolano l’una sull’altra, in casi come questi. Non c’è bisogno di ricordare Adriano e la sua corte di amici e parenti per identificare il problema: si può rammentare Allen Iverson, spesso finito nei pasticci per colpe non direttamente proprie, o la recente vicenda di Michael Vick, che pur trapiantato ad Atlanta, città che lo ha abbracciato con calore affidandogli molte speranze sportive, ha sempre preferito amici e contatti in Virginia, gli stessi che – con la sua complicità, che però in quel sistema di valori assume un tono positivo – hanno ora forse messo fine alla sua carriera. Più in là inutile andare, se non ne abbiamo gli elementi.
2. Un bizzarro articolo di un grande quotidiano italiano, ispirato (…) da un analogo pezzo del Wall Street Journal, aveva dipinto scenari di guerra e potenziali scontri tra tifosi alla vigilia di Missouri-Kansas, sfida che normalmente conta qualcosina nell’ambito della Big XII Conference, ma che questa volta aveva l’inedito compito di decidere una potenziale candidata alla “finale” NCAA, l’AllState BCS National Championship (un nome più corto faceva schifo, evidentemente…) del 7 gennaio a New Orleans. Inutile dire che non è successo nulla: i motivi ricordati dal giornale per la fortissima rivalità, se non addirittura “odio” (ma tale termine, in ambito sportivo e specialmente universitario, non è forte e sgradevole come sembra), risalgono alla guerra civile, al contrasto senza pietà tra Kansas (lo stato, non il college) nordista e Missouri sudista, ma quel che non era sufficientemente specificato è che i due college giocano uno contro l’altro in tutti gli sport ormai da decenni, e non si capisce perché proprio stavolta, 116esimo incontro nel football, gli… ultras (!?!) dovessero cercare di regolare i conti per i feroci – questi sì – scontri alla frontiera tra i due stati, che alcuni storici della guerra considerano tra i più crudeli e sanguinosi della storia americana. La situazione, nella realtà lontana dai sensazionalismi, era così diversa che la Polizia di Kansas City, dove stavolta si è giocato, ha sì deciso di aumentare il numero di agenti (30…), ma solo perché molti tifosi non erano mai stati all’Arrowhead Stadium e c’era il rischio che si creassero congestioni, considerando anche il pieno da 80.537 spettatori. In più un numero maggiore di agenti e steward a bordo campo, per evitare la classica invasione dei tifosi della squadra vincente, che spesso termina con lo sradicamento delle porte della end zone. In definitiva, nonostante i bizzarri annunci di sventura, non è successo nulla che non accada normalmente in questi casi: prese in giro benevole, mascotte di peluche delle rispettive squadre appese ad un cappio o buttate nella brace dei barbecue accesi nel parcheggio, e non c’è stata nemmeno un’altra situazione che invece a volte si verifica, ovvero disordini nel campus della squadra vincitrice, causa festeggiamenti eccessivi. Proprio delinquenti, questi tifosi americani, ma non è una novità.
3. La partita? Sì, si è giocata. Missouri ha vinto 36-28, sorprendendo subito Kansas, che era imbattuta e probabilmente non preparata ad un assalto iniziale così torrido, responsabilità dunque dell’head coach Mark Mangino, che purtroppo per lui si presta ad ironie di vario tipo, compresa quella – efficace solo in Italia, ovviamente – sul cognome, perché è vistosamente sovrappeso. Il quarterback dei Tigers, Chase Daniel, uno dei candidati all’Heisman Trophy, ha giocato molto bene, completando 40 passaggi su 49 per 361 yards e tre touchdown, mentre il suo collega ed avversario Todd Reesing, del resto meno quotato, iniziava male la gara, pur finendo con 28 su 49 (98 lanci tra le due squadre…) per 349 yards.
4. Ora è mutata dunque la situazione nel college football, che in questo periodo dell’anno stuzzica l’appassionato medio più della NFL. Anche perché il 90% degli americani vive a distanza non impossibile da un ateneo in grado di schierare una squadra a livello di Division I. Missouri viene considerata la numero 1 del ranking, seguita da West Virginia, e se nulla cambierà saranno queste due squadre a giocare al Superdome il 7 gennaio. Perché vada così i Tigers questo sabato devono sconfiggere nella finale della Big XII Oklahoma, ottima squadra che li aveva sconfitti 41-31 due mesi fa, mentre i Mountaineers, vinta la Big East con il 66-21 su Connecticut, giocano contro Pitt in una sfida che alla forte rivalità regionale (viene soprannominata Backyard Brawl, la rissa nel cortile) aggiunge ovviamente l’elemento di maggior respiro legato alla BCS. Il drammone, sportivo, è per Louisiana State, che nel fantastico Tiger Stadium di casa sua, uno dei 5-6 luoghi dove si DEVE vedere una partita di college football, venerdì sera ha perso 50-48 contro Arkansas (206 yards tra cui un touchdown da 73, e un lancio in TD per il “nostro” amico Darren McFadden) dopo tre tempi supplementari. LSU era numero uno, ma ora, con due sconfitte a carico, è scesa alla posizione numero 5. Riassumendo: se Missouri e West Virginia vincono, saranno loro ad incontrarsi il 7 gennaio per il titolo. Se una delle due perde, al suo posto dovrebbe subentrare Ohio State, che ha una sola sconfitta (contro Illinois, tre sabati fa), mentre sarebbe un controsenso promuovere l’unica altra squadra con un solo ko, ovvero Kansas, visto che i Jayhawks hanno appena perso contro Missouri. Come ogni anno, però, la determinazione delle due sfidanti nella finale è complicata, trattandosi ogni volta di determinare una graduatoria di ingresso tra squadre che raramente si affrontano durante la regular season, e dunque difficilmente possono essere comparate.

5. NFL. Salutato come incoraggiante notizia da molti il fatto che New England abbia vinto “solo” 31-28 contro Philadelphia, che oltretutto non era né in forma né al completo. Il guaio, e ne hanno parlato tanti commentatori americani, è che una vittoria con basso margine è esattamente quel che vuole un coach severo – ma basterebbe dire vero, perché questa dovrebbe essere la reazione di tutti – per ricordare ai suoi che avere vinto le prime undici partite non vuol dire nulla se si cade al primo o secondo turno dei playoff, o anche al Super Bowl. In più, visto che negli USA c’è questa ossessione per i record, nel caso specifico per raggiungere la perfect season di sole vittorie, riuscita solo ai Miami Dolphins del 1972 (17-0 compresi playoff e Super Bowl), i Patriots dovrebbero avere anche questo obiettivo. Peraltro solo a condizione che non scavalchi quello di vincere il Super Bowl. Anche se è ovvio che ottenendo il record arriverebbe anche il titolo NFL.
6. A proposito di perfect season: ogni anno, i componenti di quei Miami Dolphins del 1972 uniscono le loro forze psicologiche e soprattutto iettatorie nell’augurare che nessuna squadra possa emulare le loro gesta, e ad ogni inevitabile prima sconfitta di un’imbattuta partono – non è una metafora o un luogo comune – i tappi di champagne. Curioso che l’occasione in cui il record è stato più a rischio, 22 anni fa, vide i Dolphins di quell’anno, 1985, eseguire la missione per conto dei loro predecessori di un decennio prima: un memorabile lunedì sera di inizio dicembre arrivarono al Joe Robbie Stadium di Miami i Chicago Bears, imbattuti a 12-0 e splendidi nella loro stagione più bella e dominante, e di fronte a 75.594 spettatori i Dolphins li superarono 38-24, infliggendo loro l’unica sconfitta dell’annata. Lo scorso anno, identica situazione: i Bears, a sorpresa, erano partiti 7-0 ma caddero 31-13 in casa contro Miami, che nell’occasione aveva una sola vittoria in sette partite.
7. Miami, ancora, per un rapido accenno a Ricky Williams. Il running back sul quale – sia detto con ironia – nel 1999 avremmo perso la casa se ne avessimo avuta una (nel senso che pur non amando le scommesse l’avremmo giocata sul suo successo) è tornato in campo lunedì sera con i Dolphins, a due anni di distanza dalla sua ultima partita. Era stato squalificato per assunzione di stupefacenti, ultimo episodio dei molti, bizzarri, che avevano caratterizzato un giocatore che pure nel 2002 aveva vinto la classifica di yard corse, 1853, e che in forma fisica e soprattutto psicologica aveva una rara potenza ed un’efficacia di corsa. Be’, il povero Williams, ora 30enne, è durato lo spazio di sei portate di palla: nel pantano di Pittsburgh, infatti, alla sua sesta corsa ha commesso un fumble (insomma il pallone gli è caduto), e mentre era per terra a pancia in giù qualcuno lo ha calpestato. Risultato: doloroso strappo ad un muscolo pettorale e stagione finita. Vediamo la prossima, intanto Miami corre verso una (im)perfect season, trovandosi con un bilancio di 0-11. Nel prossimo futuro ci sono tre partite non impossibili, ovvero domenica contro i Jets, il 9 dicembre a Buffalo e il 30 dicembre contro Cincinnati, ma tali parevano anche quelle che invece i Dolphins fin qui hanno perso…
8. Chiusura con Missouri-Kansas, ancora, per un aneddoto, rievocato da un quotidiano di KC alla vigilia. Raccontando molti episodi della rivalità, alcuni dei quali realmente a rischio di ordine pubblico, è venuta fuori la sfida del 1969, chiamata poi Peace Sign Game, ovvero la partita del gesto della pace (le dita a “V”, con il palmo in fuori). Prima della partita Pepper Rodgers, coach poi conosciutissimo nel football pro e all’epoca tecnico di Kansas, aveva criticato in un’intervista il suo rivale Dan Devine. Missouri si era vendicata distruggendo i Jayhawks 69-21, e alla fine Rodgers, annientato sul campo, aveva fatto il gesto della pace a Devine. “Lui ha ricambiato, ma a metà” aveva poi detto Rodgers. Nel senso che invece di indice e medio, Devine gli aveva mostrato solo il medio…
9. Domani sera, a Dallas, Thursday Night Football, Cowboys-Packers. E’ la partita che va sull’NFL Network, e che in tantissimi dunque non potranno vedere. Beh, volete sapere una cosa? La Tv fa (e dà) tanto per il football, ma Dallas-Green Bay avrà una dignità tutta sua anche se non va in diretta in ogni casa americana, o siamo al paradosso moderno per cui esiste solo quel che passa in Tv?

Roberto Gotta
chacmool@iol.it
www.vecchio23.blogspot.com

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