Gli ultimi Giochi a misura d’uomo

9 Settembre 2008 di Stefano Olivari

Ogni nazione, per non dire ogni città, pompa le sue glorie locali con argomentazioni spesso ridicole. Abbiamo inventato tutto, da noi si mangia meglio, qui si respira la storia, fino all’immancabile, per chi un’Olimpiade l’ha ospitata, ‘I nostri Giochi sono stati i più belli, gli ultimi a misura d’uomo’. Nessuno ha ancora osato dirlo per Pechino, ma ad Atene questa articolessa era un must, per non parlare di Sydney, Barcellona e via crogiolandosi nel passato. Nel caso di Roma 1960 abbiamo sempre pensato però che questi assiomi provinciali avessero una base consistente di verità dovuta anche al periodo storico: la guerra davvero lontana, non come a Londra 1948 o a Helsinki 1952, la televisione agli albori come fenomeno di massa, un’Italia che si era ripresa in tutti i sensi, una città conosciuta nel mondo a prescindere dall’evento sportivo. Insomma, avremmo voluto esserci per vivere quell’evento in maniera più partecipe dei leggendari Tognazzi e Vianello dell’Olimpiade dei mariti (le mogli erano la Mondaini e Delia Scala). Per questo abbiamo letto con trasporto, pur senza fare scoperte, il librone (nel senso delle quasi 500 pagine) di David Maraniss, ‘Rome 1960: The Olympics that Changed the World’ (Simon & Schuster), acquistato su Amazon in piena crisi da astinenza olimpica . L’autore, premio Pulitzer per un’inchiesta sulla campagna elettorale 1992 di Bill Clinton, di sportivo ha scritto una biografia di Vince Lombardi (lo storico coach dei Green Bay Packers) ed in quest’opera raccoglie un po’ di tutto e lo shakera a supporto della tesi dell’Olimpiade di confine fra lo sport e la comunicazione di dimensioni umane e quelli di dimensioni non più governabili, con i meccanismi moltiplicatori che oggi tutti conoscono. Pochi pistolotti massmediologici, ma tanti racconti delle gesta di grandi personaggi: inquadrati nel contesto internazionale del 1960 ma senza la seriosità del giornalista che vuol far capire che lui va oltre. Interessante la parte sulla fine dell’amatorialità dello sport, per la verità finita decenni prima, e con essa di un’idea della competizione da upper class. Chissà perché, c’è venuto in mente il Lord Lindsay di ‘Momenti di gloria’ (quindi Parigi 1924), che saltava gli ostacoli su cui erano posate coppe piene di champagne appena versato dal maggiordomo: l’immagine più geniale della fine di un’epoca che Maraniss rende comunque bene a parole pur essendo discutibili i suoi riferimenti temporali. Tanti personaggi e persone entrate nella storia, da Cassius Clay a Wilma Rudolph passando per Abebe Bikila e duecento altri, inutile fare classifiche: di sicuro il cuore dell’autore è per Rafer Johnson, con tutto il bene che vogliamo a Livio Berruti e ad Eraldo Pizzo la scelta ci può davvero stare. Ma anche no.

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

Share this article