Gli Psicologi, il disagio e la colpa di Cher

9 Settembre 2020 di Paolo Morati

Nei giorni scorsi un nostro caro amico ci ha sollecitato l’ascolto di Millennium Bug, primo album degli Psicologi, gruppo formato da due diciannovenni di Roma e Napoli dai nomi d’arte di Drast e Lil Kaneki. Essendo noi di un’altra generazione e avendo una sorta di rigetto per l’autotune e la voce cantilenante, oggi caratteristiche imprescindibili tra i bit dello streaming, ci siamo trovati inizialmente in difficoltà.

Tuttavia, avendo decisa fiducia nel mittente dell’invito e non ritenendoci ancora troppo bolliti per rifiutare a prescindere il presente, abbiamo accettato l’ascolto di alcuni brani, ripromettendoci di approfondire la proposta di questa nuova musica italiana che sembra tanto stregare i ragazzi di una ben determinata fascia di età.

Quattordici le tracce, più una introduzione vocale di una ventina di secondi con – e questa non è una novità per il mondo di cui stiamo parlando – solo un paio di testi non categorizzati come espliciti, appoggiati su basi tra pop elettronico e rap con qualche inserto rock e similia, più una spruzzata degli ormai immancabili featuring.

Una ricetta calata in un panorama di storie raccontate in forma breve, qui in pochi casi sopra i tre minuti, e spesso senza superare i due minuti scarsi. Un segno dei tempi, laddove scrittura e velocità di fruizione sono imprescindibili per fronteggiare lo skip facile e la difficoltà di concentrazione, improbabili quando si ascoltava un album in vinile. Con le canzoni che ci sono parse più centrate, almeno alla nostre orecchie: Radio e Sto bene.

Ma veniamo ai testi, perché le parole alla fine hanno un loro ruolo e non sono solo un sottofondo alla musica. E questo i due ragazzi sembrano saperlo bene, laddove non ce la sentiamo di mettere in dubbio la sincerità di storie ambientate in realtà di sofferenza e rabbia, di voglia di cambiamento, di cui non siamo testimoni diretti.

Nel caso degli Psicologi, emersi e distinti da quel grande calderone identificato come ITPop, derivato a sua volta dal cosiddetto Indie (oggi un termine abusato), possiamo al più dire che sembrano fare una critica ragionata e non poco velata ai propri coetanei, o quasi, magari anche compagni di classifiche digitali (“C’è chi si ammazzerebbe per un giorno di fama e di notorietà, ha lasciato il lavoro per fare la trap. Vive da solo, ma la casa gliela paga il papà”) oltre a raccontare appunto disagi (“Ho giurato a me stesso che non sarò come loro, i giorni peggiori li ho passati da solo, avevi promesso di rimanere qui. Quando morirò portami dei crisantemi, una stecca di Marlboro e del gin” o ancora “Bevo e vado in down, non ricordo noi, i miei testi li odio, come gli avvoltoi. Tu mi guardi storto, io ricambio come posso”) solo per citare altri passaggi pescati qua e là.

Mentre da parte di chi segue in modo più assiduo il momento di cui stiamo parlando abbiamo letto giudizi positivi, come qualcosa di effettivamente nuovo e ben calibrato, piuttosto sarebbe interessante verificare se le stesse narrazioni di Marco e Alessio (questi i loro veri nomi, in Funerale cantano “Quelli che ci criticano dentro al cesso, sono gli stessi che ascoltano Ligabue prima di fare sesso”) appoggiate a melodie e arrangiamenti diversi avrebbero la stessa accoglienza presso i refrattari, coloro cresciuti sentendo altro e a cui il primo accenno di autotune provoca l’orticaria. Del resto se pensiamo al vero e profondo Blues, un genere certo non di facile presa, non è che le storie brillassero di grande allegria, pur con gli inevitabili distinguo in termini di  linguaggio ed epoca storica (qui invitiamo ad approfondire il repertorio di Lightnin‘ Hopkins).

Ma, ecco, l’autotune, udito per la prima volta nel 1998 in un celebre brano di Cher (Believe), accolto come una grande (con il senno di poi dannosa?) innovazione per colorare la voce, oltre che per salvare chi ha problemi di intonazione. Ciò che è certo è che nessuno avrebbe scommesso che sarebbe diventato poi il marchio di fabbrica di una certa musica del nuovo millennio. Niente di male, questione di gusti e abitudini, a patto di non trasformarsi in un pericoloso bug.

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