Giordani senza santini

17 Maggio 2013 di Stefano Olivari

Le continue citazioni di frasi Aldo Giordani, da parte di chi lo ha conosciuto anche solo come suo lettore, avranno forse stancato gli appassionati di pallacanestro più giovani. Noi però non siamo giovani e quindi spinti dalla recensione di Fabrizio Provera abbiamo letto avidamente, sia pure a diversi mesi dall’uscita, Quando il basket era il Jordan – Aldo Giordani vent’anni dopo, edito dalla Libreria dello Sport e scritto da vari autori sotto la supervisione della famiglia Giordani (le figlie Valeria e Claudia, ex argento olimpico a Innsbruck 1976 nello slalom, il figlio Marco ora megadirettore naturale a Mediaset). Con queste premesse di solito il fallimento è annunciato: quasi ogni operazione editoriale autorizzata si risolve in un noioso santino, al di là del successo commerciale. Una volta sola ci siamo trovati, come micro-editori, più micro che editori, in una situazione del genere, con un libro su Meazza: il testo era così acritico, sciatto e retorico che abbiamo preferito perdere soldi e tempo certi (il concetto dello stop loss) piuttosto che pubblicarlo con vergogna. Non diamo un giudizio simile, però, sul libro riguardante Giordani, perché si tratta di un’opera in cui alcuni capitoli sono da vette del giornalismo, alcuni normali ed altri modestissimi (tremendi i ‘contributi’ di Petrucci e Bulgheroni, prezzemolini mitizzati da quelli della parrocchietta).  Le vette, siamo d’accordo con Provera, sono toccate dai pezzi di Luca Chiabotti e Flavio Tranquillo. Il primo ha vissuto tutta l’epopea (1978-1992) del Superbasket giordaniano, il secondo una buona e significativa parte. Entrambi, al netto dell’ammirazione per il maestro, sono stati capaci di non trasformare il ricordo nella solita litania di aneddoti (che comunque non mancano) tipica dei libri sul basket. Usando chiavi diverse (Chiabotti quella del Jordan scrivente e direttore, Tranquillo quella del telecronista), hanno analizzato in modo critico le trasformazioni del giornalismo e della pallacanestro con la consapevolezza che un personaggio del genere non sarebbe proponibile ai giorni nostri. Prima di tutto perché Giordani era la pallacanestro italiana: fra i tanti giornali in cui scriveva prima del parto di Superbasket alla Rai, era senza dubbio anche un uomo di potere. E poi anche perché era un giornalista a più dimensioni: piazzista del prodotto basket ai microfoni Rai, quando si rivolgeva necessariamente a un pubblico generalista (complice il fatto che ci fossero due canali, certi ascolti degli anni Sessanta e Settanta sarebbero oggi inimmaginabili), criptico insider su Superbasket attraverso anche i leggendari pallini e i mille pseudonimi (Mister Pressing il più famoso), critico equilibrato sul Guerino, animale da convegno ovunque ci fosse da parlare di pallacanestro. L’atmosfera allegra e per appassionati di Superbasket è il cuore pulsante dell’intervento di Chiabotti, molto bravo anche nel raccontare gli inizi di Giordani e la sua incredibile capacità di essere aggiornato sul basket americano in un’epoca in cui per NBA e NCAA non esisteva nemmeno il sentito dire. Mentre fra le tante facce di Giordani ricordate da Tranquillo la più divertente e generazionale è senz’altro quella estiva, nel senso dei tornei estivi che negli anni Settanta e Ottanta avevano un successo di pubblico strepitoso coinvolgendo americani di livello necessariamente altissimo, visto che la NBA offriva 150 posti di lavoro in meno rispetto a quelli di oggi e che l’Italia era insieme alla Spagna l’unico sbocco professionistico di un certo livello possibile fuori dagli Stati Uniti. Conclusione? Ci è rimasta la voglia di leggere un libro solo sul Superbasket di Aldo Giordani scritto da Chiabotti e Tranquillo, magari con pennellate di Federico Buffa. Perché molti, non solo i campioni, possono essere buoni padri ma in pochi hanno buone idee.

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