Giancarlo Sarti il rivoluzionario

22 Luglio 2022 di Oscar Eleni

Caron dimonio furioso perché nel suo fuoco è facile stare svegli la notte, godendosi atletica fra i falchi pescatori, ora ci guarda gelosi vedendo le nostre lacrime che non si asciugano nelle notti torride. Visti i tempi non dovremmo piangere per chi se ne è andato e il comandante Loriga sarebbe il primo ad  applaudire se invece di un funerale pensassimo  a cosa ci ha lasciato: nella mente, nel cuore. Lo stesso pensiero che ha certamente accompagnato oltre la linea che delimita questo campo, ma spalanca cieli visibili soltanto a chi lo aspettava da un po’ di tempo impaziente, il Giancarlo Sarti, nato in Lunigiana sul ponte tremulo del Magra nel 1936, fra Toro ed Ariete.

Da ieri è pronto ad organizzare il tavolo  on chi  lo aspettava per organizzare una Lega dove Maggiò, Allievi, i suoi presidentoni, ci penseranno molto prima di ammettere, magari, Boscia Tanjevic che ieri piangeva l’amico, il compagno di una grande avventura sportiva fra Caserta e Trieste, ma nello stesso tempo era sicuro che quando toccherà a lui, a noi, soltanto Giancarlo riuscirà a dargli quel senso di armonia che circondava i più folli ed esaltanti esperimenti sulla natura umana dei giocatori, sulla voglia delle società di andare oltre le cose banali. La telefonata di Boscia nel dormiveglia imposto dalle notturne per godersi Eugene e quel cielo dell’Oregon dove siamo stati felici scopritori della crudeltà fantastica di trials che portavano gioia e disperazione. Aveva voglia di parlare, scherzare sull’amico e compagno di battaglia. Allora ci è venuto in mente cosa diceva Sarti nei momenti difficili: non è con gli occhi che si vede nel buio.

Giocatore di qualità, belle mani, grandi anche per andare a tirare qualche ceffone in tribuna in tempi dove sulle rimesse laterali ti bruciavano con il mozzicone di sigaretta per farti sbagliare. Livorno, Fortitudo Bologna, Cantù all’inizio della rivolta contro Milano, Rubini, i sciuri, fine corsa sul campo a Udine dove per 8 anni fu anche manager prima di sentire il richiamo della follia: 1980, Caserta per inventare con Maggiò e Boscia un palazzo, una società in terra di lavoro, una squadra con fenomeni anche se erano appena nati o venivano dal Sudamerica, Lopez e mano santa Oscar. Sul campo anche 12 presenze in Nazionale, 45 punti per il professor Paratore nella squadra che agli Europei del 1957 in Bulgaria gli aveva dato la maglia numero 16 e come compagni amici per una vita.

Poi Trieste dove con Stefanel nasceva un’altra splendida follia di Tanjevic. Storie di lotta e mai di potere. D’altronde uno che era nato nel giorno della presenza consolidata come Kant, Lenin e il mio direttore Montanelli non poteva che avere dentro lo spirito del rivoluzionario più che il senso artistico del Nicholson che era come lui uno della banda 22 aprile. Viaggi, sogni, sfide. Tre anni in Fortitudo, lo scudetto finalmente trovato a Caserta con Marcelletti nella stagione 90-91. Non si fermava mai, ma non ti accorgevi mai se era davvero irritato. Dava equlibrio e sapeva come sfuggire a chi voleva graffiarlo, salvo alla sua splendida compagna Luisa, langarola, non proprio da dolci con amor cremoso, piuttosto saporiti come gli sgarbi, il pane fritto e salato di quella terra. Ha vinto abbastanza (667 partite da manager) e perso il giusto (647), entrando di diritto nella classifica dei preziosi registi fuori campo con Gherardini, Cappellari e Rubini come dice  chi ricorda la sua storia.

Per noi un amico, anche se era sempre dalla parte del fiume dove sentivi la forza rivoluzionaria di chi non accettava la dittatura sportiva di grandi avversari. Fortunatamente  non è mai stato un gosciaro urlante, come chiamano quelli di Pontremoli in Lunigiana. Per fortuna personale riuscì a placare il furore della colorita banda dei Porto San Giorgio Tourist, una squadra estiva organizzata da Giordani e lasciata nelle mani di chi collaborava con lui al Guerin Sportivo, uscendo ed entrando dagli armadi del conte Rognoni, sapendo far ridere persino Brera che lo prendeva in giro con la storia dei cestisti uomini lunghi prigionieri dei difetti irreversibili secondo la tribù del Giuann che amava il baricentro basso. Era, probabilmente il 1967, bivio fra vita gioiosa e ingresso roseo nel giornalismo. A 23 anni non era facile farsi capire da chi rifiutava il pagamento previsto per quei Tourist affidati, improvvidamente, al bravo Sip mentre lo Slavia faceva strage e la gente in tribuna gridava di cacciare “lu tre” il caro Viscardi che non era più in forma di Recalcati, Bulgheroni, del Magnoni che teneva tutti allegri, dello stesso Giancarlo, del Bergonzoni sicuramente avvelenato per ripicca, come noi del resto, da chi ci aveva servito l’ultima cena sputando nei piatti. Sarti bravo a domare la truppa nervosa, a far sorridere la lupa Luisa che non credeva davvero alla castità di quel gruppo smandrappato: loro sapevano. Io ancora non immaginavo che da lì, poi, avrei trovato anche la compagna della vita che andandosene con le altre azzurre impegnate al torneo, riuscì a trovare, insieme a Licia Toriser, una coperta e una medicina per gli intossicati. Caro Giancarlo tienici un posto. Non credere che arrivi prima Boscia.

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