Formidabili quegli anni, ma anche no

22 Gennaio 2013 di Stefano Olivari

Qualcosa nell’aria (Après mai), di Olivier Assayas, ha vinto qualche mese fa a Venezia il premio come migliore sceneggiatura e se ne sono lette recensioni un po’ ovunque. Simpatizzanti e antipatizzanti del film si sono concentrati sul periodo nel quale il film è ambientato: l’inizio degli anni Settanta in Francia, in Italia, nel mondo, con storie personali che solo i dettagli potevano far scivolare verso una sinistra extraparlamentare, il terrorismo o un percorso borghese per quanto ‘nobilitato’ dall’arte o almeno dalle aspirazioni. Insomma, la prima lettura del film è stata inevitabilmente politica, innescando soprattutto sui media francesi uno di quei furiosi dibattiti interni alla sinistra che tengono conto di mille aspetti tranne che del più importante: l’esistenza della destra, intesa come elettorato. E il recente botta e risposta fra Passera e Ingroia, al di là del piccolo particolare che entrambi sembrano agenti di Berlusconi da tanto che sono funzionali alla mini-rimonta del Pdl, non c’entra (non fosse altro che perché nessuno dei due è di sinistra). La genialità di questo film sta invece secondo noi nello svincolarsi dai cliché del post-sessantottismo parigino, mirando a restituire il clima di un’epoca senza schiacciare il pedale della nostalgia: sia il protagonista, Gilles, archetipo dell’idealista artistoide borghese, che gli altri personaggi sono analizzati nel loro presente e non con le lenti deformate del ricordo. Film in parte autobiografico (Assayas è del 1955 e così come Gilles aveva un padre che adattava romanzi per la televisione: geniale la spocchiosità con cui nel film liquida Simenon, chiedendo quindi implicitamente scusa al genitore), Qualcosa nell’aria è una parodia quasi nannimorettiana del cinema di genere, con i dibattiti dopo la proiezione di un documentario sul Laos e viaggi in Afghanistan alla ricerca di improbabili maestri, gli hippy americani e gli scopicchiamenti esistenziali (in Francia evidentemente non concedono contributi pubblici in caso di loro mancanza), la musica psichedelica e le droghe. Però la rinuncia alla furbizia (lo spettatore politicizzato, anche il lettore del Giornale o di Libero, esce deluso) e alla complicità, perché non c’è né apologia né pentimento, fa di questo film qualcosa di unico. Giudizio finale: per chi pensa di avere già visto tutto.

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