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Football & Texas, non soltanto petrolio

Roberto Gotta 11/07/2015

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Si fa presto a dire Texas. Colpa di media che vivono di luoghi comuni, un po’ per ignoranza e un po’ perché spesso ad essere ignorante è un pubblico che si accontenta di quel che gli viene propinato. E così vale anche per il Texas. Chiedi a un non americano – ma anche ad alcuni statunitensi – e ti senti descrivere un’entità geografica composta da un mosaico di stereotipi derivanti da film, telefilm, racconti e immagini manipolate. Ci sono i cowboy, ti dicono, e sia. C’è il deserto, ma in realtà è solo il 10% del territorio. C’è quella vallata con le rocce rosse sul cui sfondo gli indiani inseguivano le diligenze, ed è falso: perché le rocce rosse ci sono realmente, ad esempio nel parco statale del Caprock Canyon, ma non sono quelle del film, situate invece nella Monument Valley che si estende tra Arizona e Utah. Ci sono i pozzi di petrolio, ma non ovunque. Ci sono le mandrie, certo. C’è la prateria, e ci sta. C’è Fort Alamo, a San Antonio, ma non c’è straniero che lo veda e non rimanga colpito dalle ridotte dimensioni dell’edificio vero e proprio, situato all’interno di una cinta muraria modesta. Ma nessuno ti menziona mai la pesca nel Golfo del Messico, le colline della Hill Country che occupano parte della zona centrale, le paludi al confine con la Louisiana, le follie delle vacanze universitarie di primavera a South Padre Island, i centri medici e l’astronautica di Houston, l’avanguardia accademica, informatica, musicale e artistica di Austin, i boschi fitti dell’area orientale. Soprattutto, nella confusa memoria iconografica di molti c’è un’inelegante commistione tra immagini e luoghi diversi, una miscela errata che ad esempio colloca Dallas in un panorama desertico – quando invece tutto attorno ci sono praterie – e pretenderebbe di infilare uno Stetson da cowboy in testa a qualunque abitante dello stato. Di questo atteggiamento ha parlato, nella settimana che ha preceduto il Super Bowl XLV, un dirigente dell’ufficio turistico di Dallas, centrando il problema con la nitidezza di chi ormai ne ha viste e sentite di tutti i colori: «I media stranieri che vengono da noi vogliono vedere le mandrie di bestiame, i pozzi petroliferi, i tumbleweeds (cespugli rotolanti, ndr), i cowboy. E rimangono di stucco quando arrivano e scoprono un’area metropolitana moderna. Pensate a Fort Worth, perfetta miscela di spirito cowboy e cultura, e pensate a tutte le cittadine del circondario che vibrano di attività. Se poi volete distrarvi c’è sempre lo shopping, che a noi in fondo ricorda un po’ il football perché è uno sport di contatto…».

Ecco, il football. Il Texas è anche questo, ovviamente. Anzi, nel libro che avete appena iniziato non ci sarebbe Texas se non ci fosse il football. Tradizione, passione, cultura, ossessione: mescolate tra loro come a ingannare l’osservatore e complicare il suo compito, giornalistico e storico, di distinguere ciò che è realmente locale e genuino da ciò che può invece valere per qualsiasi luogo della Terra a proposito di qualsiasi sport.

I numeri del Texas, prima di tutto. Dire che la superficie del Texas è di 696.000 chilometri quadrati può servire solo a geometri, coltivatori ed esperti di misurazioni, mentre spiegare che si tratta di un’area più che doppia rispetto a quella dell’Italia fa capire qualcosa in più. La popolazione al 2010 era però di poco più di 25 milioni di persone, dunque meno della metà di quella italiana. Facile arrivare alle conclusioni: uno stato in cui, al contrario del nostro dove non riesci a stare un attimo da solo che subito spunta qualcuno, c’è spazio per respirare e allargare lo sguardo. Stato che fa parte degli USA dal 29 dicembre 1845, dopo avere costituito residenza dei nativi americani (termine moderno con cui si designano quelli che una volta erano chiamati indiani o addirittura pellerossa) per millenni. Zona francese dal 1684, terreno coloniale spagnolo dal 1689 al 1821, dominio messicano fino al 1836 e repubblica a sé dallo stesso anno al termine della guerra d’indipendenza in cui la presa cruenta di Fort Alamo da parte dei messicani nel marzo del 1836 fu episodio militarmente di scala ridotta ma emotivamente significativo perché indusse molti texani a prendere le armi. Pochi anni dopo il riconoscimento come stato degli USA, il Texas partecipò alla Guerra di Secessione (o Guerra Civile), appoggiando dal febbraio 1861 il tentativo di distacco iniziato dal South Carolina come reazione alla politica di abolizione della schiavitù voluta dal presidente Abramo Lincoln, e fu riammesso nell’Unione solo nel 1870.

La data che ha però segnato la storia moderna dello stato è quella del 10 gennaio del 1901, quando fu scoperto il primo pozzo di petrolio sulla collina di Spindletop, nei pressi di Beaumont, cittadina del Texas sudorientale a poca distanza dalla Louisiana che nel giro di due mesi vide aumentare la propria popolazione da 9.000 a 28.000 abitanti. E questo, nell’inevitabile sintesi che si sta facendo qui, aiuta a comprendere cosa abbia voluto dire per il Texas la scoperta di essere appoggiato su una quantità (quasi) infinita del cosiddetto oro nero. La sua crescita – gloriosa se vista con la prospettiva dell’economia locale, un po’ meno da quella ecologica, anche se il petrolio greggio è un olio minerale e dunque completamente naturale – nasce dunque da lì, dall’acume che un piccolo imprenditore locale, Patillo Higgins, ebbe nel notare che i fenomeni naturali che da tempo si verificavano sulla collina, tra cui la facilità di combustione di sterpaglie e l’uscita di gas da pozzanghere, assomigliavano a quelli che aveva visto qualche tempo prima in un faticoso viaggio di lavoro in Pennsylvania, dove erano stati sfruttati i primi giacimenti superficiali. Higgins trovò ascolto (e finanziamenti) in tale George Washington Carroll e i due fondarono nel 1892 una compagnia che aveva il compito di approfondire – in tutti i sensi – le sensazioni dei due proprietari. In realtà il pozzo venne poi scoperto da Anthony Lucas, che si era sostituito a Higgins, sfiduciato dai soci dopo i primi infruttuosi tentativi di trivellazione: erano le 10 e 30 del mattino di quel 10 gennaio e lo sbuffo di petrolio greggio che all’improvviso fuoriuscì con fragore riccamente spaventoso dalla torretta arrivò a 60 metri di altezza, come si nota anche da una celebre fotografia scattata pochi minuti dopo e che da sola potrebbe essere un ritratto drammatico dell’euforia del momento. La produzione di Spindletop dopo qualche anno si esaurì, ma nel frattempo le varie compagnie che si erano formate per lo sfruttamento della zona avevano compreso che in quell’immensa area geografica il petrolio e altri idrocarburi c’erano davvero: sono le medesime compagnie che oggi, con nomi diversi, dominano ancora il mercato mondiale.

Petrolieri erano i proprietari delle prime squadre professionistiche di football dello stato, e con il petrolio ha in parte costruito la propria fortuna Jerry Jones, l’attuale padrone dei Dallas Cowboys, anche se è significativo del mutamento parziale dello scenario texano che Bob McNair, al quale si deve la nascita degli Houston Texans nel 1999, provenga invece da un settore lievemente diverso, quello della cogenerazione, ovvero il metodo attraverso il quale il vapore prodotto nel processo della creazione di elettricità nelle centrali – che come combustibile utilizzano anche un derivato del petrolio, certo – viene catturato per produrre calore, cioè energia termica. I Texans furono autorizzati dalla NFL a entrare in scena (a partire dal 2002) per sostituire in città gli Oilers, ovvero i Petrolieri, soprannome perfetto per zona e ambizioni ma svanito quando la squadra trovò la sua sistemazione attuale a Nashville, Tennessee. Oilers che erano stati fondati nel 1960 da Bud Adams, classe 1923, indiano Cherokee per discendenza materna e figlio di K.S. che era succeduto al fondatore Frank Phillips alla presidenza della celebre Phillips Petroleum (esiste ancora come ConocoPhillips e avrete forse visto in giro l’insegna Phillips66, una delle marche più popolari). Quel che è bizzarro di Adams, di cui si tornerà a parlare nel capitolo dedicato agli indimenticabili Oilers di fine anni Settanta, è che finite le scuole medie fu mandato alla Culver Military Academy di Culver, nell’Indiana, un collegio privato che nelle intenzioni del fondatore (Culver pure lui, sì) doveva preparare i migliori giovani d’America ad affrontare con la necessaria competenza e cultura le università più impegnative.

A guardare la lista di diplomati, che comprende Lamar Hunt, Walter O’Malley (l’uomo che nel 1958 trasferì i Brooklyn Dodgers a Los Angeles) e George Steinbrenner (storico e discusso proprietario del New York Yankees, scomparso nel luglio del 2010), parrebbe a dire il vero che la CMA preparasse più che altro futuri monocrati con la propensione ad ascoltare unicamente la propria voce, ma sarebbe una definizione ingenerosa per Hunt, nato nel 1932 nell’incoraggiante cittadina di El Dorado, nell’Arkansas, e scomparso nel 2006. Hunt nacque già straricco grazie all’intraprendenza dei genitori e dunque gli fu più agevole sognare: nel suo caso il benemerito sogno sportivo era quello di fondare, fondare, fondare. Con un atteggiamento verso la vita che molti cominciarono a stimare presto, perché Hunt cercava di non sbandierare la propria ricchezza. Viaggiava in classe economica, girava con un’auto che aveva comprato di seconda mano e aveva un unico paio di scarpe, che cambiava solo dopo averne consumato la suola. Come cita John Pirkle nel suo Oiler Blues, Mickey Herskowitz, celebre giornalista di Houston che a suo tempo era stato inviato imberbe a parlare con Bear Bryant al famigerato camp estivo di Junction, «la differenza tra Hunt e Adams è che Hunt è capace di stare giorni interi senza parlare di soldi». Aveva interessi maggiori, quelli che peraltro è facile abbia proprio chi non deve preoccuparsi di farli, i soldi (ma allora Adams?).

Preso il diploma alla Culver e una laurea in geologia a Southern Methodist, la celebre università di Dallas in cui fu anche panchinaro nella squadra di football, Hunt trovò la porta serrata quando nel 1959 chiese alla NFL (e al commissioner ombra, George Halas dei Chicago Bears) il permesso di aprire una nuova squadra a Dallas. E allora nel 1960 creò con altri otto imprenditori (tra cui proprio Adams) la American Football League, di cui facevano parte i suoi Dallas Texans, poi trasferitisi a Kansas City nel 1963. Fondò poi i Chicago Bulls da socio di una cordata, ispirò la creazione della North American Soccer League e successivamente della Major League Soccer, in cui istituì i Columbus Crew e in seguito divenne proprietario del Dallas FC e mise in piedi il World Championship Tennis. Insomma, fu l’espansione sportiva personificata, nel suo zelo di diffondere non solo il football, ma anche il calcio (e per questo ebbe grane dalla NFL, che poi facendo finta di nulla lo ha onorato per il resto della sua carriera) e il tennis in zone vergini e con metodi meno arcaici di quelli che aveva osservato fino a quel momento.

Ecco allora che il football professionistico e il petrolio sono legati in maniera stretta, molto più di quanto non lo siano mai stati ad esempio lo sport e l’agricoltura o l’allevamento di bestiame, altre attività che a lungo hanno caratterizzato l’economia texana e ne rappresentano ancora un elemento cruciale, nelle zone almeno in cui il territorio lo consente. La superficie coltivabile del Texas è la più grande di tutti gli stati dell’Unione, e il cotone è ancora in cima alle liste di prodotti che vengono esportati nel resto della nazione e del mondo, in un richiamo involontario al tempo in cui nei campi si massacravano di fatica, qui come in regioni adiacenti, gli schiavi e anche tanti coltivatori. Tanto per citare due personaggi celebri, crebbero in circostanze simili l’indimenticabile cantante country Johnny Cash e Paul Bear Bryant, lo storico coach di Alabama, entrambi nati nell’Arkansas ma le cui esperienze d’infanzia furono emblematiche di una certa generazione cresciuta in tutto il sud e il sud-ovest.

La strutturazione dell’economia del Texas giocò comunque un ruolo pesante nell’affermazione del football, come si vedrà nei capitoli dedicati alla high school e al college. E anzi un’intera generazione di allenatori di liceo con formazione mentale ed esperienze di vita comuni si formò nel periodo peggiore per l’agricoltura statale, quello della Grande Depressione iniziata nell’ottobre del 1929, protrattasi per oltre un decennio, e accoppiatasi per buona parte degli anni Trenta con lo scatenarsi del tremendo Dust Bowl, il fenomeno geologico-meteorologico che prese il nome dall’effetto che provocò, quello cioé di trasformare una vastissima zona del continente nordamericano in una scodella di polvere (in realtà terriccio) trasportata dal vento. Migliaia di residenti, impossibilitati a coltivare i campi e ridotti a una condizione d’indigenza al limite della fame dovettero emigrare in regioni che offrissero migliori opportunità economiche. E chi rimase in Texas (o negli altri stati martoriati dal fenomeno) crebbe fortificato e segnato nell’anima dall’esperienza vissuta, traducendo poi da giocatore sul campo o da allenatore nell’aula e sulla linea laterale le lezioni apprese, tra le quali l’assoluta necessità di costruire qualcosa, nella vita, che permettesse di scegliere, e non essere più vincolati alla terra o al mestiere dei padri. E divenne allora più chiaro a molti ragazzi che giocare a football al liceo poteva voler dire guadagnarsi una borsa di studio per l’università e da lì non fermarsi più finché quelle nuvole di terriccio non fossero scomparse dallo specchietto retrovisore, per poi tornare a casa a tempesta cessata e con un pezzo di carta che elevasse a un’esistenza migliore. L’epopea delle Friday Night Lights celebrate dal libro di Buzz Bissinger – che in realtà dipinge della situazione un quadro abbastanza deprimente e cinico – nacque in quel periodo, anche se all’inizio si giocava al pomeriggio, a livello di liceo, e dunque non c’era bisogno di pali dell’illuminazione. Ma lo spirito era il medesimo, e dalle fila dei giocatori, che fossero stelle o portatori d’acqua o quelli che a ogni latitudine escono dal campo con la divisa pulita e se ne vergognano, perché preferirebbero un livido all’onta di non avere nemmeno messo piede dentro le righe, uscivano i futuri protagonisti a livello di NCAA, di NFL e della professione di allenatore. Un altro intreccio tra vita reale, struttura economica, e football. Valido in tutte le aree dello stato, anche se con profondissime differenze etniche, culturali e geografiche, le une capaci spesso di influenzare le altre. Il football professionistico, ad esempio, per ovvi motivi ha sempre avuto impatto minore, nel West Texas o Texas occidentale lontano dai grandi centri, poco popolato e dunque di nessun interesse per le leghe pro, che sono sostanzialmente imprese commerciali con franchigie, cioè succursali, in aree che possano economicamente sostenerle. E invece proprio in quelle zone è esploso il football dilettantistico: termine a dire il vero non del tutto appropriato per high school e college, visti gli interessi e i soldi che girano, alla luce del sole o sottobanco.

Dunque football ovunque, in Texas, e siamo qui per questo, in fondo. Steve McKinney, ex centro degli Houston Texans nato a Galveston, sulla costa, alcuni anni fa la mise così: «Da noi è come una religione. In Texas la percentuale di persone che progetta la propria giornata o la propria settimana in modo da non perdersi neppure un minuto di una partita, non importa di quale livello, è semplicemente più alta che altrove». In questo libro si parlerà molto di high school e college e delle relative strutture, ma un’idea di cosa sia il football qui la può dare, tra tante, la notizia, d‘inizio 2011, che ad Allen, non distante da Dallas, è stata approvata la costruzione di uno stadio da 60 milioni di dollari e capienza di 18.000 posti. Sorgerà, è vero, in un complesso da 119 milioni comprendente auditorium e centro servizi, ma quel che colpisce è che lo stadio è per la squadra del locale liceo, il terzo più grande del Texas con oltre 5000 studenti (ndr, visto che il libro è del 2011: l’impianto è stato inaugurato nel 2012, chiuso perché non rispettava tutte le norme di sicurezza e finalmente pochi giorni fa è stato inaugurato per la seconda volta). L’impianto di prima, da 14.500, non bastava più: c’erano famiglie che si tramandavano l’abbonamento di padre in figlio, manco fossimo a Green Bay, e c’era una lista d’attesa per il sorteggio settimanale della settantina di posti di libera disponibilità. La banda musicale è composta di 600 elementi – è la più grande di tutti gli USA, per un liceo – cui fanno da assistenti circa 100 genitori, molti dei quali si fanno coinvolgere solo perché tale ruolo assicura un pass per vedere le partite da bordo campo. Nel complesso della scuola ci sono uffici appositi per i coach di football, un campo di allenamento al coperto, una sala proiezioni e spogliatoi differenziati a seconda delle discipline. E ci sono addirittura tre negozi, in una città che conta 85.000 abitanti, che vendono esclusivamente abbigliamento e oggetti con i colori e il simbolo della Allen High. Uno di loro, curiosità, è di proprietà di Chris Tripucka, fratello dell’ex giocatore NBA Kelly e figlio di Frank, ex NFL.

E non importa se notizie come quella del nuovo stadio della Allen o della magnificenza della struttura dove si allena la Highland Park High School, che al Super Bowl XLV è  stata ritenuta all’altezza dei… Green Bay Packers, potrebbero ridare aria a chi a lungo ha visto i texani come esagerati buzzurri guidati dallo slogan Everything’s bigger in Texas (tutto è più grande, in Texas), in due parole come arricchiti con l’alone di puzza di vacca (o petrolio) perennemente intorno a loro. Esagerazione? Mica tanto, se si pensa ad alcuni aneddoti del passato. Alla notizia dell’assassinio di John Kennedy un cronista della CBS ad esempio espresse in diretta il suo dispiacere che il Presidente fosse stato ucciso in una «zona così remota» degli Stati Uniti, come se Dallas e il Texas fossero ancora terre di pellerossa, mentre quando Texas batté Navy e il suo amato quarterback Roger Staubach (poi mito dei Dallas Cowboys!) al Cotton Bowl, aggiudicandosi nel 1963 il suo primo titolo nazionale, un giornalista ora molto noto per avere creato la Terrible Towel ma decisamente fazioso, Myron Cope, fu costretto a rimangiarsi la sua previsione secondo la quale i Midshipmen avrebbero divorato vivi i Longhorns, «squadra di lumache con gambe secche e grossi sederi», un accenno a dire il vero anche al fatto che Texas non aveva alcun giocatore afro-americano, come peraltro anche Navy. Robaccia, però. Quel che conta, qui, è la passione per il football che racconteremo in tutte le prossime pagine. (1 – continua)

Estratto del libro ‘Football & Texas – Storie americane’, di Roberto Gotta (Indiscreto, 2011). In vendita a 4,99 euro in versione eBook per Kindle di Amazon, Kobo di Mondadori, e iPad-iPhone, mentre per tutti gli altri tipi di eReader il download può essere effettuato dalla piattaforma BookRepublic. La versione cartacea costa invece 18 euro ed è in vendita presso Amazon, Hoepli e altre librerie italiane. Distributore in esclusiva: Distribook srl

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