Fede in questo sport

13 Febbraio 2007 di Roberto Gotta

1. «God bless America» non è solo la prima strofa di un bellissimo inno che in momenti di particolare patriottismo viene eseguito prima delle manifestazioni sportive (un altro è America the beautiful, altrettanto struggente), ma una forma di esortazione ad una benedizione divina che viene richiesta in ogni fase della vita di un credente. Lasciando stare considerazioni più profonde sul peso che la religione ha nella realtà quotidiana americana, con le implicazioni – spesso rese dai media italiani in maniera caricaturale e grossolana – che questo comporta, è interessante, qui, considerare come nello sport l’influenza delle fede sia sempre molto forte, con risvolti che sarebbero ad esempio inconcepibili da noi. E’ pressoché impossibile infatti immaginare che un Filippo Magnini o un Vale Rossi o uno Stefano Baldini, scendendo dal podio con una medaglia d’oro o una coppa per prima cosa ringrazino Dio per la vittoria. Anzi, il solo pensiero fa un po’ ridere: al di là del segno della croce all’ingresso in campo, che a volte sembra più un gesto abitudinario o peggio apotropaico che altro, da noi il privato religioso, semmai esiste, resta comunque robustamente isolato dal pubblico, e probabilmente in molti, soprattutto gli illiberali che adottano il termine “interferenza indebita” per etichettare qualsiasi parere che non corrisponda al proprio, urlerebbero allo scandalo o, più probabilmente, si farebbero una risata alle spalle dell’incauto che osasse tirare in ballo la religione dopo una vittoria o anche dopo una sconfitta.
2. Negli USA è tutto diverso (anche in questo caso). Gli esempi sono costanti, ma quando di religione si parla in un’occasione importante come il Super Bowl è evidente che il livello di attenzione e di commento sale. Non è una novità: ad ogni grande manifestazione sportiva americana c’è, nei dintorni dello stadio o dell’arena, qualche personaggio che issando cartelli con moniti arcigni invita a non dimenticare Dio, a non perdersi dietro alle vacuità dello sport e trascurare la religione o insomma a rispettare entrambe, ma è facile scrollare le spalle e ritenere che si tratti dei soliti svitati, come quello della foto che abbiamo scattato, e che vedete qui, con lo striscione che ricorda come il vero vincitroe del Super Bowl sia comunque Gesù. Quando però a parlare seriamente di religione è l’allenatore della squadra che vince il Super Bowl, allora il discorso cambia. Tony Dungy, l’uomo dal sorriso costante, dall’aria stremata e dalle orecchie vistose, ha più volte parlato di fede, dal palchetto delle conferenze stampa: al venerdì, di fronte all’enorme platea di giornalisti dell’ultimo incontro pre-gara, ha esplicitamente ricordato che al martedì mattina – nella NFL giorno di riposo per i giocatori, che invece il lunedì vanno in sede per eventuali controlli medici e prima analisi della partita giocata 24 ore prima – tutto lo staff tecnico dei Colts ha una sessione di lettura e commento della Bibbia, sessione cui al venerdì possono partecipare anche i giocatori, prima della funzione religiosa della domenica mattina (o del sabato sera, se alla mattina si gioca la partita delle ore 13). In campo, ricevendo il trofeo, ha detto «più di qualsiasi altra cosa, e l’ho detto già in settimana, Lovie Smith (allenatore dei Bears e suo amico da anni, ndr) ed io, non siamo solo i primi coach di colore al Super Bowl, ma siamo coach cristiani che hanno dimostrato come si possa vincere seguendo gli insegnamenti del Signore, e di questo siamo ancora più fieri». E quando si è offerto ai giornalisti nella zona interviste, pochi minuti dopo la fine del Super Bowl, felice come pochi e confortato dalla stima e dal rispetto di gran parte delle persone che gli stavano di fronte, ha citato il Signore (The Lord, in inglese) più volte, ringraziandolo, anche se ha sentito il dovere di specificare che «al Signore non importa necessariamente chi vince o chi perde, ma ci ha preparato per questo momento ed i miei giocatori lo sanno». Perché proprio qui sta il punto, che Dungy ha saggiamente toccato: se entrambi i coach sono cristiani devoti ma solo uno vince, vuol dire che l’altro è meno cristiano, che ha fatto qualcosa di male, che ha peccato, che ha stipulato un patto con un’entità innominabile? Certamente no, ed ecco perché a volte le considerazioni religiose, fatte con pura sincerità, rischiano di palesarsi come lacunose se esaminate con razionalità. Un po’ come quando ci si infila negli spogliatoi di una squadra che abbia vinto qualcosa e ci si senta dire – succede sempre – «ce lo meritiamo, abbiamo lavorato sodo tutto l’anno per arrivare fin qui». Vero, giusto: ma allora quelli che hanno perso hanno lavorato di meno e dunque non se lo meritavano allo stesso modo?
3. Come abbiamo scritto altre volte, le pratiche promozionali e di organizzazione stampa che la NFL adottava già negli anni Ottanta si sono diffuse successivamente ad altri avvenimenti europei e mondiali, e quando la copiatura è saggia ed aiuta a crescere è copiatura leale, frutto di osservazione e apprendimento. Si resta però a volte stupiti di come l’organizzazione del Super Bowl sia prossima alla perfezione: quest’anno c’è stato il problema della viabilità nell’accesso al Dolphin Stadium, con tragitto di una ventina di chilometri dal centro di Miami che è durato in alcuni casi quasi due ore anche per gli addetti ai lavori, ma per il resto è andato tutto liscio, anche se va ricordato ai lettori che non è assolutamente vero che le città ospitanti vengono completamente e totalmente impregnate dell’avvenimento. Anche stavolta, infatti, una volta usciti da South Beach e da alcune installazioni temporanee come i villaggi degli sponsor in spiaggia solo le bandierine appese ad ogni lampione e qualche striscione ricordano che lì si sta per svolgere il Grande Evento, perlomeno nelle ore diurne, e come ogni anno anche stavolta il quotidiano locale (nello specifico, Miami Herald e Sun Sentinel) ha pubblicato un articolo nel quale si fa notare come parecchi negozi rischino di rimetterci denaro, in quella settimana, perché i tradizionali clienti escono di casa il meno possibile per non infilarsi nel traffico, quando non se ne vanno addirittura altrove per evitare il caos, che comunque in serata è notevolissimo ovunque, anche perché molte vie vengono chiuse alle auto. Tornando all’aspetto organizzativo, comunque, non faceva impressione che nell’enorme sala stampa del Miami Beach Convention Center ci fosse uno splendido stand del comitato organizzatore del Super Bowl XLII dell’anno prossimo (3 febbraio), a Glendale, sobborgo di Phoenix, o che il relativo sito Web sia già perfettamente funzionante (www.azsuperbowl.com), ma che addirittura ci fosse una struttura di Tampa, che organizzerà la partita tra due anni…
4. Domenica scorsa, giocatosi anche l’inutile Pro Bowl, il responsabile della rubrica sportiva di una televisione regionale di Chicago, una ‘affiliata’ di uno dei tre grandi network (ovvero una rete locale che trasmette i programmi di quel network, salvo inserirvi pubblicità e notiziari locali agli orari previsti), nel salutare i telespettatori ha detto più o meno «ora che è finito il football, può sembrare che non ci sia più sport, ma non è così». La forza della NFL e del college football ed il loro peso nella coscienza sportiva americana sono così grandi che spesso l’appassionato rimane come stordito di fronte ai lunghissimi sette mesi senza partite (quelle di preseason NFL non possono essere considerate tali, dai): solo il baseball ha un potere evocativo simile, mentre college basket e NBA non godono di altrettanta considerazione accorata, ricordando peraltro che il basket NCAA attira e coinvolge emotivamente un numero di persone maggiore di quello professionistico, non foss’altro perché le squadre sono quasi 300 e coprono l’intero territorio americano. Ma il buon commentatore di Chicago sapeva benissimo che quel che diceva era lievemente fasullo: tra pochi giorni infatti si svolge ad Indianapolis la NFL Draft Combine, una terrifica

nte rassegna in cui i giocatori che entreranno nel draft di aprile vengono pesati, sottoposti a prove atletiche e psicologiche, intervistati e scrutinati in ogni maniera. Non di rado, giocatori reduci da carriere di college mediocri o anonime esplodevano atleticamente in alcune delle prove di Indy, e si ritrovavano prime scelte, mentre è vero anche il contrario, ovvero che il cosiddetto overscouting, l’esaminare così maniacalmente un giocatore da non riuscire più ad averne una visione complessiva ma solo legata a mille particolari, può a volte danneggiare atleti che se la siano cavata benissimo al college e proprio per questo siano stati scrutinati in modo quasi ossessivo. Quando poi non si sconfina nel grottesco: lo scorso anno ci fu una polemica nemmeno troppo piccola quando emerse che Vince Young (foto), quarterback che solo 45 giorni prima aveva portato Texas al titolo nazionale in un memorabile Rose Bowl contro Southern California, non era stato particolarmente brillante nei test attitudinali e di intelligenza, argomento spinosissimo perché quando si parla di QB di colore – ancora nell’anno 2007… – è sempre lì che incombe il pregiudizio che non posseggano realmente le doti di lettura del gioco e di leadership che il ruolo richiede, una panzana grossolana, come si è visto nel corso della storia, ma che qualcuno tira fuori regolamente ogni volta che il Qb nero di turno viene visto più come grande atleta che come computer ambulante alla Peyton Manning. Young, scelto da Tennessee e inserito come quarterback titolare dopo qualche partita, su pressione del proprietario Bud Adams, ha poi disputato una buonissima stagione di debutto, ed è abbastanza certo che sarà a lungo il Qb titolare dei Titans, se continuerà così.
5. Comunque sia, la NFL Draft Combine – peraltro non l’unica sede per il giudizio sui giocatori, che effettuano anche provini privati – rappresenta una tappa interessante per chi comincia a sentire l’astinenza da football, e in marzo, pressappoco da metà in poi, c’è lo spring football, altro fenomeno da pagine e pagine di giornali. Da non confondere con il quasi contemporaneo spring training, ovvero i ‘ritiri’ delle squadre di baseball, lo spring football altro non è che una sessione di allenamenti che la NCAA concede fuori stagione alle sue squadre, un paio di settimane in cui i coach possono avere un primo contatto reale sul campo con le matricole, prima dell’inizio degli allenamenti ‘veri’ in agosto. E’ ben noto il detto secondo il quale nel Texas, stato dove il football è nel sangue e nell’acqua che si beve, esistono solo due sport, football e spring football, anche se ora la presenza della pallacanestro è così importante che tale proverbio non risulta così esatto, ma l’idea ve la siete fatta. La partita conclusiva delle sessioni di spring football, giocata suddividendo in due il roster e creando quindi due squadre, in certi posti porta 20-30.000 persone allo stadio, e rappresenta come un prologo a quel che verrà, con le sue tradizioni (il nome, ad esempio: quasi sempre si usano i colori contrapposti, per cui un college che sia biancorosso avrà il Red and White Game) e le sue aspettative. Poi, quasi a smentire quel commentatore di Chicago, il draft, che conclude finalmente un bimestre in cui le previsioni e le illazioni sulle scelte rivaleggiano sul Web con le peggiori invenzioni di calciomercato che infestano le nostre lande, i mini-camp di maggio per rookie e veterani e il traning camp di luglio, del quale vi riferiremo perché anni fa abbiamo avuto la fortuna di partecipare (come osservatori!) e la riteniamo tuttora una delle esperienze più memorabili che ci siano capitate. E non solo perché un mattino, stanchi e distratti, buttammo nel latte un intero cucchiaio di sale scambiandolo per zucchero, e al pensiero del gusto orrendo di quella sorsata ci viene ancora oggi il voltastomaco.

Roberto Gotta
chacmool@iol.it

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