Atletica
Effetto Placebo
Oscar Eleni 31/10/2016
Oscar Eleni dal Famedio dei repressi per non essere stato a Formia ad ascoltare Ans Botha la stupenda e severa allenatrice settantacinquenne di Wayde van Niekerk, il sudafricano con campo base a Gemona che ai Giochi di Rio avrebbe dovuto incantare tutti perché il capolavoro è stato quel giro di pista carioca. Il suo record mondiale, 43”03 nei 400, che spodestava l’immenso Michael Johnson, è stata la vera impresa in quella bolgia, ma ci hanno imbesuito con tante altre cose, seguendo ovviamente Usain Bolt, rubandoci qualcosa con queste telecronache ormai tossiche che avvelenano la vita di chi guarda sport soltanto da casa, al bar, fra quelli che, per pubblicità, bevono e sparano minchiate da un divano. Uno che corre i 100 in meno di 10”, i 200 sotto i 20” e farà il giro di pista in meno di 43” è più di un prodigio. Sembra il futuro.
La rabbia di non essere stato col Marco Bonarrigo del Corrierone alla scuola Zauli, patrimonio della cultura sportiva, mondo delle meraviglie per la nostra atletica che prima di deprimersi, farsi del male, ha conosciuto la terra degli aranci, il regno del professor Placanica, la reggia di Elio Papponetti che portava il papa a vedere il suo meeting inventato dalla passione, con il rischio di trovarsi atleti famosi sotto casa per una cambiale non onorata. Ci siamo svegliati invidiosi per non aver potuto ascoltare i semplici segreti di una grande dello sport: vecchio cronometro, fischietto di plastica, quaderno per appuntare ogni esperienza. Caro professor Vittori, lei questa zia Botha l’avrebbe abbracciata contrariamente a quando incontrava il Tellez del Carletto Lewis, chiedendo a Fracchia di farle vedere i famosi allenamenti di Pietro contro il prof in Vespa.
Certo questo Corrierone, come avrebbe detto il Pesaola catenacciaro smascherato dal risultato, ci ha rubato le idee. Eh sì, perché Domenico Calcagno le ha cantate giuste a queste baccanti che rifiutano il cambio, borbottanti barbosi capitati nello sport sbagliato. Dovevano farne uno individuale. Pretendono di essere primi e mai giudicati alla pari degli altri, aziende personali come ha detto il Giampaolo che ha affondato il povero De Boer nella Milano dove gli allenatori soffrono se dietro non hanno la società. Persino nell’hockey in line dove la Quanta ha rivinto la supercoppa.
Atteggiamenti da condannare, rivolte di schiavi dorati avallate dal tossico televisivo. Quelli che vorrebbero incantare i serpenti e vanno in delirio se uno fa le capriole, bacia una telecamera, segna più di tutti, ma perde molto più degli altri. Quando, tanto per citare gli ultimi casi, Insigne o Bacca, magari anche Eder, sclerano, fanno capire a tutti che l’allenatore ha perso il senno se li ha chiamati fuori per sostituirli, bisognerebbe cantargliele come l’allenatore di Redford nel Migliore: “Io sono l’allenatore e tu il giocatore, adesso siediti in panchina fottuta primadonna e poi ci vediamo in ufficio”. Dovrebbe andare così se i dirigenti fossero competenti, educati bene, con un vissuto alle spalle, se i giocatori non avessero troppe spalle su cui piangere e giustificarsi anche quando se la tirano in faccia, sbagliano l’impossibile, se li avessero allevati bene.
L’abbiamo presa un po’ larga, annoiati da un campionato dove le vittorie casalinghe aumentano in maniera esponenziale e dal deterioramento della tecnica nella classe arbitrale degli abbronzatissimi che amano l’instant replay perché così li si vede molto di più. Ci stiamo girando intorno al caso neuroArmani della doppia sconfitta in eurolega, avendo visto come strapazza i nemici in Italia perché i suoi allenamenti, siamo contenti che la pensi come noi anche Dell’Agnello il tigre, sono certo più duri di alcune partite. Certo giornata stuzzicante per alcune cadute da pachidermi, per scarti abissali come non si vedeva da tempo, un turno dove l’abbraccio accademico va a quelli di Capo d’Orlando perché hanno creato l’isola che gli altri non potranno mai avere come giura Basile, come ammette Abele Ferrarini. Ci è piaciuta la reazione di Brindisi quando pensavamo che non potesse essere soltanto un sorprendente Cardillo a salvare il basket di Sacchetti, ma, allo stesso tempo, ci siamo chiesti cosa tiene sotto il cofano Torino. Abbiamo apprezzato il quintetto italiano di Reggio Emilia per vincere il finale di Trento seguendo le insegne del suo capitano Aradori che ha trovato la maniera migliore per far godere il suo amico Pedrazzi, un giornalista competente, appassionato, con un vissuto reale rispetto al tossico irrispettoso di questa era glaciale dove tutto si nasconde sotto la musica molto alta, un collega che spesso ci rimprovera quando guardiamo sospettosamente il gatto dagli occhi incantatori, mettendolo sempre in discussione quando c’è da fare una Nazionale.
Colpito, ma non affondato, non infelice perché se Aradori e Cervi ci hanno fatto guardare al sole nascente altri ci hanno messo di cattivo umore. Sì, anche il Della Valle spesso superficiale, il Polonara confuso, quel De Nicolao che prima di inventarsi l’assist partita ne aveva combinate tante. Ora ditemi voi se uno come Menetti, due volte finalista scudetto, paziente tessitore in terra dove le critiche fioccavano anche quando tutto andava bene, uno che ha lanciato davvero la meglio gioventù del nostro basket, non meriterebbe di sedersi di fianco a Messina sulla panchina della Nazionale. Niente contro Vitucci, il prescelto, ma tanto per dire come ci sia poca riconoscenza e questo anche da parte dei giocatori che nelle loro camere di carità fanno sapere alle suocere quello che le nuore dovrebbero intendere.
Milano e le sue crisi europee partendo da una premessa: è squadra da primi otto posti, forse non da primi quattro, ma questo dubbio non deve diventare un peso e quindi un alibi come dicono i soliti noti che vivono tremando, convinti che i fili per stare attaccati al vestito Armani possano cedere. Al Pireo col Real si sono notate alcune sfasature. Uno guidava a sinistra, l’altro a destra, cari Hickman e Kalnietis datevi una regolata e liberate la mente di Cinciarini. Voglia di gloria individuale, ma la difesa no, eh no caro Gelsomino, quella falla fare ai gregari. Non ne abbiamo, dice l’uomo nato vicino al santuario della Madonna, abbiamo costruito la squadra per non dipendere da nessuno, chiedendo aiuto a tutti. Non va bene, urla il coro dei famigli, ci sono categorie, bisogna sapere chi è la prima o la seconda punta, non leggi cosa scrivono o dicono, come si accendono nell’iperbole, quando parlano di miglior giocatore. Chi prende i rimbalzi? Be’ c’è un allenatore pagato per organizzare meglio o triangulo, per allenare il tagliafuori dei gregari, noi prime punte siamo sempre proiettati verso il canestro nemico.
Lo sapevamo che poteva finire così. Però accorgersi subito può far guarire, migliorare e Raduljica chieda più spazio se saprà interpretare il ruolo con responsabilità. Chi deve farlo per primo? La società, ovviamente. Chi vede ogni allenamento e ascolta ogni tipo di baggianata come alibi. Non basta l’allenatore? Basta, ma non avanza. Anche chi ha potere assoluto ha bisogno di un Giancarlo Sarti, di un Puglisi, di un Porelli, di un Cappellari, a proposito auguri a lui all’Arrigoni che spesso è stato cemento, ma molte altre volte, quando allenava anche bene, aveva bisogno di questa protezione. Storie importanti dal Buzzavo di Treviso al mondo Fortitudo, e anche il Bianchini duce di Roma non avrebbe fatto quello per cui sarà ricordato senza Acciari, e Nikolic o Gamba, a Varese, come avrebbero potuto fondere un Bisson con Zanatta, reggere il cambio Raga-Morse, senza Gualco. Magari dimentichiamo qualche nome, l’età, ma il concetto no: una squadra è tale se si condivide il dolce con l’amaro, il pane duro col caviale, se riesci a far coesistere Meneghin con Antoine Carr: non con McAdoo, fu quasi amore a prima vista.
Veniamo ad Alessandro Gentile che, giustamente, ci fa sapere di non aver commesso nessun crimine rendendosi disponibile in caso di una chiamata da parte di Houston. Ha ragione, a parte i tempi per l’annuncio. Considerando cosa gli aveva dato la società forse avrebbe dovuto rendere tutto meno traumatico come se altrove, perché l’obiettivo non era la sola NBA, avessero più di quanto offre Giorgio Armani. Ora se lui non ha commesso un crimine non si può dire che la società sia da considerare colpevole per aver creduto al divorzio unilaterale , o di essersi consultata con l’allenatore per costruire una squadra che potesse fare a meno della sua “prima punta”. Non è colpa di nessun se D’Antoni non lo ha preso fra i Razzi. Non può essere un crimine pensare all’oggi ma pure al domani. Ora le parti smettano di farsi dispetti. Comanda Repesa, dirige Proli. Punto. Speriamo che accada in questa durissima fase di 7 partite fino alla trasferta del 19 novembre a Cremona, con in mezzo quattro euroscontri, uno dei quali a Desio perché al Forum cantano i Placebo (!).
Pagelle dal ristorante di Formia (Chinappi?), dove Sara Simeoni ed Erminio Azzaro raccontavano della vita nel sacro convento della scuola Zauli, ispirazione di un grande dirigente (leggere il Colasante) che ha ispirato una scuola dello sport che deve tornare ad essere il motore nell’attività di questo paese così fintamente sportivo.
10 Alla coppia ARADORI-CERVI perché la prestazione di Trento, non l’unica, ci dice che nei posti dove si lavora davvero i giocatori, anche quelli con difetti, possono migliorare e diventare importanti.
9 Al CARDILLO capitano di Brindisi che ha salvato Sacchetti dall’ennesima delusione casalinga. Tiro da tre con tabella non dichiarato, ma per il resto cuore, un leone del mare. Belle scoperte si fanno nelle serie cosiddette minori, ma per fortuna SKY trasmetterà anche molta A2 e avremo una visione più completa. Bravo Crespi in TV a vedere similitudini fra questo giocatore e ringhio Gattuso.
8 A DELL’AGNELLO che non vuole passare da martire anche se per l’ennesima volta si trova a guidare una squadra con dietro poco capitale. Meriterebbe altre fortune, ma con gente del genere i giocatori crescono bene, ecco una Caserta che dovrebbe avere dieci italiani e due stranieri.
7 Ai “FALSARI” del calcio che hanno truccato bilanci, si dice almeno 14 società, ma non andranno al rogo come è avvenuto a Minucci con Siena. Diversi punti di vista e chi ammette un certo malcostume generale si difende in questo modo: se ti pigliano sei da condannare, se non ti hanno mai preso gloria alla tua furbizia. La nuova etica, cara gente.
6 Al DI CARLO che fa capolavori con Capo d’Orlando, anche quando ha perso, perché trasmette energia a tutti, sa guidare un gruppo anche con tanti infortunati.
5 Al TRINCHIERI che ha perso tre volate con squadroni in Eurolega perché gli serve fortuna per completare un lavoro magistrale che ha fatto dire a molti suoi colleghi, anche importanti, che lui è la vera rivelazione fra gli allenatori europei.
4 A FLACCADORI e DELLA VALLE visti nella sfida di Trento perché nelle loro giocate, zingarate, puttanate, abbiamo notato la perdita dell’innocenza che serve per migliorare ogni giorno di più. Ci riflettano.
3 A Bruno FITIPALDO fosforo, cuore, genialità per Capo d’Orlando, perché ci fa venire il nervoso sapere che in Uruguay hanno creato un giocatore del genere mentre noi costruiamo dei robottini da piccoli rollaggi.
2 A Joe RAGLAND grande protagonista con Avellino perché ora dovrà confessare cosa ha Sacripanti più degli allenatori che in altre squadre lo hanno allenato e mai capito.
1 All’ULEB per aver fatto un passo esagerato verso il futuro con questa eurolega così pesante. Era meglio sperimentare e andare per gradi. Conteremo troppi infortuni a fine stagione e questo non doveva accadere. Succede anche nella NBA? Appunto.
0 A CANTÙ che dopo una settimana di coccole, interviste, complimenti, si è presa un meno 43 a Capo d’Orlando. Certe batoste pesano, deprimono, fanno venire tanti dubbi.