Calcio
Due eroi in panchina, l’ultima vittoria di Toth e Kertesz
Indiscreto 05/05/2016
C’è stata un’epoca nel calcio italiano in cui l’Ungheria era di grandissima tendenza, anche al di là dei discorsi sul calcio danubiano. Da lì negli anni Venti e Trenta arrivarono in Italia grandi allenatori e mezze figure, ma tutti erano avvolti da quell’aura mitica e mitizzante che le comunicazioni frammentarie sempre regalano. È il caso di Istvan Toth-Potya e Geza Kertesz, la cui storia è stata raccontata da Roberto Quartarone in Due eroi in panchina, libro da poco uscito per Edizioni InContropiede. Non c’è bisogno di spiegare perché il periodo storico si presti alla drammatizzazione, sia per la tragedia incombente che per le atmosfere. Che ci hanno ricordato quelle di tanti libri, ma in particolare quello su Arpad Weisz scritto da Matteo Marani (Dallo scudetto ad Auschwitz), come osservato nella prefazione da Darwin Pastorin. Toth e Kertesz non sono però ebrei e nemmeno allenatori paragonabili al livello di Weisz, sono soltanto professionisti ungheresi che in Italia trovano considerazione, lavoro e una relativa ricchezza. Il più quotato Toth, ex ottimo attaccante del Ferencvaros, dopo avere fatto ottime cose anche in campo internazionale va alla Triestina e poi sostituisce proprio Weisz all’Inter (all’epoca Ambrosiana), prima di tornare in patria ed essere richiamato dalla Triestina: più che per la tattica si fa ricordare per essere un grande preparatore atletico, cosa non banale negli anni Trenta (in serie A due allenamenti alla settimana…). Kertesz invece, dopo avere incrociato Toth nel Ferencvaros, chiude la carriera da giocatore allo Spezia, nel 1925-26 e proprio allo Spezia inizia ad allenare in una carriera in panchina quasi tutta italiana: Carrarese, Viareggio, Salernitana, Catanzarese, Catania, Taranto e Atalanta, con due grandi occasioni in serie A. Una alla Lazio, durata poche partite, l’altra alla Roma purtroppo (per tutti) nel 1942-43, l’ultimo campionato prima che anche l’Italia diventasse un campo di battaglia. Il libro ha a nostro modesto avviso due grandi pregi e un difetto. Il primo pregio è il grande lavoro di ricerca, esistendo poco sull’argomento l’autore ha dovuto mettere insieme storie in origine frammentarie. Il secondo pregio è quello di tenere la barra della narrazione sull’aspetto sportivo delle due biografie, con la Storia che entra nelle pagine in maniera naturale e non per far vedere che si è studiato (o copiato). La morte di entrambi per mano nazista, nello stesso giorno, all’inizio del 1945 e quando ormai Budapest stava per essere liberata (anzi, ‘liberata’) dai sovietici, per avere collaborato con la resistenza ungherese nel salvataggio di molti partigiani (e anche di alcuni ebrei), arriva così a chiudere due vite eroiche nel finale ma normali per tutto il resto, aumentando nel lettore la sensazione di ingiustizia subìta. Il difetto? Lo stile, con una scrittura un po’ piatta e wikipedistica, che non emozionerebbe se non fosse per la forza intrinseca delle storie. Alla fine, come accade per tutti gli argomenti interessanti e poco conosciuti (almeno da noi), rimane però la sensazione di non avere buttato via il proprio tempo.