Domenica delle palme (Mbaye non è da Inter)

20 Febbraio 2017 di Stefano Olivari

Il giorno dopo Bologna-Inter è un lunedì come tanti altri, per lo meno al Champions Pub. Lo nuova linea di Trump su Israele, le dimissioni di Renzi da segretario di un PD sull’orlo della scissione, la marcia pro immigrazione di Barcellona e la morte di Kounellis sono notiziole, buone giusto per riempire un Tg di provincia con in coda un servizio sui vestiti di Melania e un altro sull’amore fra Bettarini e Dayane Mello. Tutto ovviamente scompare di fronte all’uno a zero con cui i nerazzurri hanno battuto la squadra di Donadoni, dando un po’ di senso alla domenica e forse anche alle vite del Gianni, del Walter, del Franco e di Budrieri, che hanno seguito la partita lì al pub saltando con gioia il pranzo casalingo della domenica. Va detto che il Gianni e il Walter sarebbero stati da soli, mentre il Franco avrebbe dovuto fare conversazione con i fratelli juventini e i cognati, fratelli della moglie, ugualmente juventini ma non aggressivi né affiliati alla ndrangheta. Uscire di casa è per Franco una situazione win-win, come dice Pier Luca quando incontra i business angel: se l’Inter vince è felice, se non vince i parenti juventini sono più tranquilli e non parlano di Guido Rossi hashtaggando #finoallafine. Quanto a Budrieri, l’Erminia era fuori con Yannick a manifestare a favore delle palme di piazza Duomo e in frigo c’era soltanto uno Yomo aperto da tre giorni, quindi anche il panino carbonizzato con resti di mortadella e brie, messo insieme da Paolo-Wang pensando ai grafici del rand, è risultato un’alternativa interessante.

Il Max la partita se l’è vista da casa, mentre il padre gli diceva che aveva trovato da raccomandarlo per un posto di commesso alla bottega svedese dell’Ikea di Carugate, a spacciare munsbit e il caffè biologico Patar (peggiore, se possibile, di quelli di Ping), e che forse il giornalismo non era la sua strada. Max nemmeno lo ascoltava, come tutti i laureati in scienze della comunicazione rimane convinto di dover lavorare nella comunicazione e soprattutto che il futuro risieda nella comunicazione. Intanto comunicava con la Fede, commentando le poche azioni interessanti della partita, ma l’inviata di punta di Nerazzurrecontaccododici.net non la stava ovviamente guardando: era a pranzo con un importante foodblogger americano (in realtà un ventenne ripetente al liceo artistico che fa le consegne per un kebabbaro di Settimo) conosciuto su Tinder, che l’ha portata dal Calafuria e, con un po’ di imbarazzo, l’ha pregata di non prendere l’antipasto a buffet (e quindi il famoso surimi gourmet) perché sarebbe andato fuori budget. Così anche oggi, mentre il mondo brucia, nella periferia ovest di Milano il parlare di calcio è l’unica cosa che tenga attaccati alla vita insieme agli sconti 30% del Simply, al video poker, al centro massaggi Tuina, al Nails Paradise, a piccole eredità che integrano piccoli redditi e soprattutto a Gabigol.

Sono le due del pomeriggio e gli spenti dipendenti della nuova Tuboplast stanno elogiando il nuovo caffè servito da Paolo-Wang, in realtà una miscela immonda che Ping ha fatto arrivare dalla Romania e ha un retrogusto di terra, quasi come i finti porcini che arrivano dalle stesse zone. Il piatto forte di oggi era spigola con patate, che il Champions Pub ha proposto a 2,90 euro. Ping e i suoi soci Tong stanno vivendo un momento abbastanza difficile, visto che la Guardia costiera del porto di Genova ha sequestrato una partita di pesce guasto, che dietro all’etichetta indicante la scadenza 5 marzo 2017 aveva anche quella reale: 5 marzo 2016. Pesce destinato a un importante grossista cinese in zona Comasina, a quanto si è appreso. Non vogliamo dire che si tratti di Ping perché a 25 anni dall’inizio di  Tangentopoli siamo garantisti, ma certo è che né lui né i Tong hanno mai venduto un prodotto che fosse a norma. Commentando la notizia, Lifen ha scherzato sul fatto che si trattasse di dieci chili di pesce topo: “È andata ancora bene, Ping di solito vende direttamente i topi”. Stranamente papà Tong non ha gradito la battuta e il nonno le ha spaccato un bastone sulla schiena mentre lei, la sua nipotina preferita (le altre sono state tutte buttate in fasce nell’immondizia), implorava pietà.

Zhou ha per tutta la mattina farcito panini secchi con maionese scaduta, cosciente che la morte dei dipendenti della Tuboplast sarebbe un bene per l’umanità oltre che per l’INPS: esseri inutili, invertebrati che litigano per Cuadrado e Kondogbia ma rimangono del tutto indifferenti a una tassazione in termini reali del 70% o all’essere governati da gente non eletta. Ce l’ha con il mondo, Zhou, ma soprattutto con il comune di Milano che ha permesso che si piantassero palme e banani di fronte al Duomo, con la sponsorizzazione di Starbucks. Piante tropicali vicino a una cattedrale in stile gotico del Nord Italia: scelta degna di una città che non produce più nulla e ha perso ogni tipo di etica, dove i musei di design industriale, visitati da fashion buyer lucani e social media manager goriziani all’eterna ricerca del mojito giusto, hanno sostituito le industrie. Una città dove Starbucks avrà di sicuro successo, con stylist avellinesi e hipster lecchesi a contendersi il bicchiere di caffè rovente credendo di essere a New York e facendosi però mandare vaglia da Avellino e Lecco per imprecisati corsi di formazione (intorno al 10 del mese i soldi sono stati tutti bruciati in locali dove si ascolta acid jazz assaggiando finger food a base di nduja). Zhou ha deciso: ammazzerà presto uno dei simboli del male, partendo da uno di quei milanesi sedicenti veri che partono al giovedì pomeriggio per il weekend “perché tanto al venerdì in ufficio non c’è nessuno”, augurando già al mercoledì “Buon we”. Intanto ha deciso di bruciare quelle cazzo di palme, alla faccia di chi vuole trasformare Milano in Marrakesh facendola anche passare per una genialata, ma per fortuna qualcuno lo ha preceduto e la fedina penale di Zhou è rimasta pulita. I video non sono chiari: intorno alla mezzanotte fra sabato e domenica si vedono alcuni giovani, fra cui uno con un montgomery, ma subito dopo un uomo più anziano, un po’ appesantito, con un piumino della Legea.

Max è disperato, al punto di invidiare il finto foodblogger della Fede. È reduce da una settimana fiacca, in cui comunque ha scritto circa 2.000 post su scenari di mercato e tabelle per l’inseguimento Champions. Certo chi sul sito del Corriere della Sera la sfanga con una photogallery su Belen o con titoli tipo ‘Kate Upton top: per la terza volta sulla cover di Sports Illustrated Swimsuit’, ‘Emily Ratajkowski, nostalgia canaglia. La foto del bikini in Grecia infiamma il web’ e ‘Adriana Lima in micro abito di pelle nera (con zip) è la regina della notte’ è mille volte più fortunato di lui, che si trova fra l’incudine della spazzatura calcistica quotidiana e il martello di Hidegkuti, nel cui azionariato Pier Luca sta cercando di far entrare Matteo Arpe (gli ha scritto una email, ma non ha ancora avuto risposta) pur avendo come vero mito Arturo Artom. Intanto Ridge Bettazzi continua a mandare pezzi per lettori di target alto, l’ultimo era intitolato ‘Il sogno spezzato di Baggio’. Ovviamente non si tratta di un articolo per il popolo, quella stronzata nostalgica sui cinquant’anni di Roberto Baggio che potrebbe scrivere gente come Max, ma di un ricordo dell’esordio in serie B di suo fratello Eddy, dopo alcune buone stagioni in C. I soliti Happel e Michels ricordano quindi volentieri l’Ancona 2000-2001 che Brini portò a vette di gioco che sarebbero state eguagliate solo dal miglior Barcellona di Guardiola, nonostante il decimo posto in classifica ricordato dai beceri seguaci del dio risultato, gente che compra (ma non legge) libri del genere ‘conta solo vincere’. L’austriaco sostiene che con Storari in porta l’Olanda avrebbe vinto il Mondiale sia nel 1974 sia nel 1978, ma questa volta Michels invece di annuire lo stuzzica: “Anche con Storari bendato, secondo me. Ma tu perché al posto di quella pippa di Jongbloed non hai fatto giocare Doesburg, o al limite Schrijvers, uno che i rigori li sapeva parare?”. Happel aveva e ha tante doti, ma non quella dell’autoironia: “Stammi a sentire, coglione. Tu avevi non soltanto Schrijvers, ma anche il mio Treijtel, però poi hai scelto Jongbloed lo stesso. Dobbiamo ammettere l’errore, chissà cosa cazzo ci abbiamo visto in quello lì. Se hanno commesso sbagli santoni come Ferrara, Stramaccioni e Brocchi significa che tutti possono sbagliare”.

Chiusura con citazione del solito Senad Gutierrez, che sul sempre antifranchista Explotadores y Explotados di questa settimana (in allegato un libro della Botteri in cui con l’analisi dei flussi elettorali si spiega che a votare Trump sono stati soltanto gli allevatori del Montana appassionati di NFL e alcune sezioni del Ku Klux Klan della Georgia) ha scritto proprio di quell’Ancona che univa la passione calcistica a quella politica: ‘Al Del Conero, con il freddo cane che faceva, soltanto un rivoluzionario come Brini poteva scaldare i cuori antifascisti di Ancona, che guardando quella squadra si sentivano in una piccola Rosario. E non era soltanto un sogno, perché Parente è quanto di più simile al Trinche Carlovich si sia visto nell’emisfero boreale. Nella rabbiosa dedizione di Melli c’era tutto l’orgoglio della classe operaia, mentre i ponti Max Vieri li costruiva non con le fighe, come scriveva la prezzolata stampa borghese, ma con i migranti e gli esclusi di tutti il pianeta. Ogni entrata di Peccarisi era una sfida alle multinazionali, mentre con Doudou tutti abbiamo capito che l’Africa non era una terra sfortunata da aiutare, ma un modello verso cui tendere: non può essere un caso che la Boldrini sia cresciuta in provincia di Ancona. Se mi è consentita un’incursione nell’attualità, penso che il PD attuale assomigli a quella squadra: tante anime, ma tutte indubbiamente di sinistra e attente ai bisogni degli italiani meno fortunati”.

In casa Budrieri finalmente si è passato qualche giorno sereno, rotto solo dalla solita telefonata di Frank, che si lamentava del fatto che le Tepa anni Settanta mandate da Budrieri fossero sfondate. Risposta scontata: “Le Tepa si rompevano quasi subito già da nuove, cosa cazzo vuoi da me?”. L’agente speciale della CIA lo ha voluto comunque ringraziare con l’ennesima soffiata: “Tutto il casino romano dei Cinquestelle lo vogliono scaricare su di te, che ormai sei un personaggio scomodo. Fra qualche giorno il Fatto pubblicherà l’originale di una polizza che Romeo ti ha intestato. Potresti diventare il nuovo Tortora”. Poi ha preso la cornetta Kevin, esaltato dall’avvicinarsi della data del closing (“Ma secondo te Deulofeu lo possiamo riscattare?”) e dall’avere scoperto che il suo amico italiano conosceva Kurt Cobain, che se fosse vivo oggi avrebbe 50 anni, come ricordano i quotidiani ormai specializzati in anniversari e ricorrenze. Le biografie più o meno ufficiali omettono un episodio che la dice lunga sul carattere del leader dei Nirvana. A metà del pomeriggio milanese del 25 febbraio 1994 un Cobain stanco della vita in tour si eclissò senza salutare nessuno della sua organizzazione. La sera prima i Nirvana avevano suonato al Palatrussardi e quel venerdì era prevista la replica. Cobain era però stanco di fare se stesso, l’idea di arrivare così ai 70 anni lo terrorizzava: iniziò a prendere mezzi dell’ATM a caso e si ritrovò in via Novara davanti all’allora Bar del Campione. Entrò, strafatto, venendo subito colpito dal carisma di un uomo che mormorava strane frasi in italiano: “Per me mandare via il Bagnoli è stata una cagata, Marini non era da Inter come giocatore e non lo è nemmeno come allenatore”, “Se non rientra in fretta il Berti qui siamo fritti”, “Shalimov non fa vita da atleta”. Nessuno ovviamente in quel bar riconobbe Cobain, che rimase per un’ora imbambolato davanti a un 49enne Budrieri che analizzava il momento interista mentre tutti annuivano. La perfezione, la pace, il senso: in quel bar c’era tutto ciò che Cobain aveva sempre cercato. In qualche modo riuscì poi a dire ‘Palatrussardi’ e il perspicace Budrieri gli diede un passaggio con la sua 127: tanto era lì vicino e poi quel ragazzo malmesso lo incuriosiva. Probabilmente un barbone, pensò Budrieri impietosito, che cercò anche di fare conversazione credendo che fosse inglese (“Certo che quel Gascoigne lì…”, “Venables è più un allenatore che un selezionatore”, “Ma questo ragazzino, il Beckham, è davvero forte?”) e poi gli diede diecimila lire (“Puoi andare al Calafuria, in piazzale Siena. L’antipasto a buffet è buonissimo”) e un foglietto con il suo numero di telefono. Prima di spararsi, un mese e mezzo dopo, Cobain non stava ascoltando un disco dei R.E.M. come è stato raccontato al popolo, ma era con quel biglietto in mano pensando di telefonare a Budrieri. Un biglietto ritrovato dalla CIA, con un appunto indecifrabile: ‘Dell’Anno non è un regista’. Purtroppo non sapremo mai perché alla fine Cobain si sia sparato.

Mentre Lifen con la faccia piena di segni spiega ai pochi avventori che si sta andando verso il cosiddetto e-scontrino, a patto di iscriversi al portale dell’Agenzia delle Entrate (che nemmeno sospetta dell’esistenza del Champions Pub), Budrieri cerca di leggere la Gazzetta sul bancone della Sammontana ascoltando in sottofondo il Gianni, il Walter e il Franco analizzare la vittoria con il Bologna, mentre Ibrahim, Nabil e gli altri spacciatori maghrebini dal passaporto variabile cercano di tirare sera facendo battute sulle giornaliste di Sky e sul momento in cui uccideranno i pochi italiani di quel bar. Che del resto nemmeno se ne accorgerebbero, presi come sono a discutere del ritorno in panchina di Zeman e sulla rigidità del suo 4-3-3. Il riformista Budrieri è sempre stato il primo nemico di ogni forma di populismo, ma quando sente frasi copiate pari pari dagli agonizzanti giornali, del tipo ‘Continua la corsa Champions’, ‘Palacio comunque generoso’ e ‘Gabigol come Ronaldo, primo gol a Bologna’ getta per terra la Gazzetta spiegazzata e piena di macchie di ketchup scaduto che titola ‘Gabigooool!’ e di puro carisma affronta le migliori menti del Champions Pub, gente di spessore che passa le giornate a parlare del rinnovo di Donnarumma ma scriverebbe una nuova legge elettorale per il Senato in due ore, se soltanto fosse a capo del dipartimento affari giuridici di Palazzo Chigi (del resto Renzi ci aveva messo il capo dei vigili urbani di Firenze, essendo in quel momento impegnati Carlo Conti e Ceccherini). Anche se lui che in nerazzurro ha visto giocare Angiolino Gasparini e Nelson Rivas non dovrebbe scendere sullo stesso piano di chi crede che l’Inter sia stata inventata da Pinamonti e di chi come il Franco rimpiange gli ex come Mbaye, tutti fenomeni incompresi.

“Una delle versioni meno brillanti dell’Inter di Pioli, con poca velocità e João Mario tornato davanti alla difesa quasi come con De Boer. Interessanti i cambi di difesa continui, da tre a quattro, con Murillo e D’Ambrosio che hanno fatto la loro parte. Eravamo più forti del Bologna e alla fine abbiamo vinto, peccato che il prezzo da pagare sia stato leggere articoli ridicoli su Gabigol, qualcuno ricordando Ronaldo ha fatto dell’ironia ma qualcuno anche no: rimane un giocatore con buona tecnica, ma da calcetto. Riparliamone quando avrà fatto qualche mese di allenamenti sulla forza, se no diventiamo peggio dei giornalisti. Il Bologna ha fatto schifo, e pur nella macchinosità l’Inter ha giocato meglio, ma quello di Eder su Dzemaili, sullo 0-0, per me era rigore netto e non ricordarlo sarebbe da juventini. Nel calcio puoi essere più debole, ma non per questo ti devono ladrare sugli episodi o, peggio ancora, farti girare sempre contro quelli di dubbia interpretazione. Nessun rimpianto vedendo Mbaye, bel fisico ma adatto ad altri sport. Non occorre aver visto Maicon per dire che Mbaye non è da Inter “.

(Continua. La versione riveduta e corretta di questa puntata sarà pubblicata a giugno 2017 con il nuovo libro che conterrà tutti gli episodi della stagione).

Avvertenza per i nuovi lettori: Non è da Inter trae ispirazione dalla realtà, ma non è la realtà. Chi lo ritiene volgare o si ritiene offeso può semplicemente non leggerlo.

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