Dictator, Cicerone e quelli veri prima del declino

28 Gennaio 2016 di Stefano Olivari

C’è stato un periodo nella storia del mondo in cui hanno interagito fra di loro personaggi come Cesare, Pompeo, Catone, Crasso e soprattutto Marco Tullio Cicerone. La politica fatta persona, forse l’unico grande nella storia di Roma (non la Roma di Marino o di Tronca, chiaramente) ad essersi fatto strada senza vittorie militari, proprie o per interposto generale. È lui il protagonista ufficiale di Dictator, il terzo libro della trilogia di Robert Harris a lui dedicata (terzo volume dopo Imperium e Conspirata), mentre quello vero è lo schiavo Tirone, fedele segretario e trascrittore di tutte le sue orazioni. Più ciceroniano del suo padrone e maestro, poi amico dopo una commovente ‘liberazione’, in ogni pagina è evidente che Tirone siamo noi. Fai scattare l’identificazione, una delle prime regole del marketing.

Harris è infatti senza se e senza ma il nostro scrittore preferito nella categoria ‘professionisti’, ogni suo libro ha un equilibrio perfetto fra realtà storica di fondo e fiction nelle parti di collegamento: lo si nota proprio quando si ispira alla storia più conosciuta, come è stato con L’Ufficiale e la spia (in pratica il caso Dreyfus, ma dalla prospettiva di un altro militare) ed Enigma, ma anche quando gioca con la storia controfattuale (Fatherland) e con quella contemporanea (I diari di Hitler), oltre che con l’alta finanza (L’indice della paura), la politica (Il Ghostwriter, ferocissima parodia del blairismo) e altri argomenti. Harris riesce a dare vita ed emozioni anche a personaggi sui quali è stato scritto tutto, come Cesare, suscitando un desiderio di approfondimento che pochi storici veri, nemmeno quelli più portati alla divulgazione, sanno suscitare.

È chiaro poi che il materiale a disposizione ha la sua importanza: la transizione fra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero è stato stato il periodo più confuso ed emozionante di una storia più che millenaria, ma da bravo ex giornalista (BBC e Observer, soprattutto) Harris riesce a farlo sembrare cronaca di oggi: l’eccesso di democrazia trasformatosi in clientelismo, le leggi contorte e troppo interpretabili, il popolo facilissimo da manovrare attraverso feste e regali, l’anarchia che prepara il terreno agli uomini forti, il culto della personalità che sostituisce le idee, soprattutto la perdita dei valori fondanti di una civiltà. Non è che Roma sia morta con l’ascesa di Ottaviano, anzi, ma di sicuro l’Impero nella sua fase propulsiva ha vissuto di rendita sul lascito culturale, giuridico e tecnico della Repubblica, tanto è vero che per un certo periodo ha funzionato anche con al vertice pazzi, criminali e inetti.

Tutto poi è finito per mille ragioni, che più di due secoli fa Edward Gibbon ha spiegato in maniera meravigliosa (se il tempo è poco consigliamo anche il Bignami di Adrian Goldsworthy) e angosciante, con una interpretazione del declino poco pubblicizzata (viene in mente una battuta di Marrakech Express: “A noi ci ha rovinato il Cristianesimo, come cultura”). Purtroppo la storia non è maestra di vita, nemmeno nei rari casi in cui viene insegnata.

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