Libri

Dan Peterson il numero uno

Simone Sacco 01/05/2025

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«Sono a casa: Milano, sabato mattina, non stavo facendo niente in attesa della tua telefonata». Pronunciato esattamente così, con quel tono di voce che sa di grattacieli, blues, bibite frizzanti e gomma da masticare. Dan Peterson, 89 splendide primavere compiute lo scorso 9 gennaio (e mai un quinto fallo compiuto a livello umano), è tuttora un gigante sia nella comunicazione mediatica sia nella voglia di fare. Mi racconta che negli ultimi anni ha rallentato notevolmente, che ora segue il naturale processo della vita, ma te ne accorgi dopo neanche dieci secondi che pure in questo istante vorrebbe essere sommerso tra i cori di un palasport, in uno studio televisivo, seduto di fronte a una macchina da scrivere per creare l’ennesimo elzeviro su di una promessa del college basketball. Oppure in qualche libreria per promuovere il suo nuovo libro, scritto con l’amico (ma quanti amici ha uno come Peterson?) Umberto Zapelloni ed edito da Minerva. ‘La mia Olimpia in 100 storie + 1’ è una sorta di memoir proustiano-petersoniano dove il Coach si è divertito a rileggere gran parte della galassia del suo amato basket, dal suo arrivo a Milano nel cupo 1978 fino all’altro ieri quando, nel 2024, ha ricevuto una delle maggiori onorificenze FIBA per chi ne sa di schemi tattici e sfide leggendarie. Non serve aggiungere altro se non altre cento di queste storie (e altrettanti anni), Dan!

 Coach, una carriera come la sua non è fatta di solo basket, ma anche di scrittura. Vero?

Sì, al momento ti giurerei che ho scritto almeno venti libri per non dire trenta. ‘Basket essenziale’ uscì addirittura nel 1979 e in ognuno di questi volumi non mi è mai piaciuto parlare di me in prima persona. Lo so che, prima o poi, molti uomini di sport cadono nella trappola dell’auto-celebrazione, ma io ho sempre preferito mettere il club in primo piano.

Difatti ne ‘La mia Olimpia’ parla prima degli altri (presidenti, dirigenti, giocatori, tifosi, addirittura giornalisti) per poi magari lasciarsi sfuggire qualche prezioso aneddoto su di lei. Dunque si ritiene una persona modesta…

Diciamo che sono uno che ha sempre creduto nel team building, nel “fare squadra” come si dice qui in Italia. L’anno scorso sono stato introdotto nella Hall of Fame della FIBA e potrei tranquillamente far pesare questo mio status, ma poi? Che cosa ci guadagnerei? No, una volta ricevuta la notizia, il mio primo ringraziamento è andato a gente speciale come Mike D’Antoni, Dino Meneghin e Bob McAdoo: i miei campioni, gli uomini che mi hanno condotto fino a quest’ambita onorificenza. A tutti gli altri, invece, devo dire un enorme grazie per quella moltitudine di trofei che mi hanno fatto vincere allenando in America, in Cile e in Italia.

Un’intera autobiografia su di lei uscirà mai?

Me l’hanno proposta gli editori di Minerva appena hanno mandato in stampa questo libro sull’Olimpia. Ed io effettivamente ci sto pensando. Può darsi che la scriverò. Restate sintonizzati, amici sportivi e non sportivi… (ridacchia)

Coach, leggendo tutte queste belle storie sull’Olimpia Milano – in particolare i suoi racconti degli anni Ottanta – mi è tornata in mente un’Italia che guardava agli Stati Uniti e sapeva ancora sognare, invece di parlar male in continuazione del suo presidente in carica. La pensa anche lei così?

Be’, sai com’è: quando tutto diventa più lontano nel tempo, è facile perdersi nel sogno. In fondo se chiedi a gente come Vittorio Gallinari o Mike D’Antoni qual è stata la squadra più eccitante e incredibile in cui abbiano mai giocato, loro ti risponderanno senza il minimo dubbio la “Banda Bassotti” (vale a dire l’Olimpia della stagione 1978/’79 che riuscì ad arrivare alla finale scudetto giocando senza pivot e schierando ben sei ragazzi provenienti dalle giovanili. NdR). Esiste in italiano l’aggettivo “impronosticabile”? Bene, noi quell’anno eravamo davvero impronosticabili. Pur essendo giovani e senza esperienza arrivammo a giocarcela contro la Virtus Bologna (2-0 per gli emiliani che si laurearono campioni d’Italia. NdR) dopo aver battuto la fortissima Varese in semifinale per 2-1. Il nostro fu un mezzo trionfo basato sul cuore, sull’entusiasmo e sulla memoria storica di cosa fosse vestire la divisa biancorossa dell’Olimpia. E il pubblico milanese, ovviamente, se ne accorse. Il PalaLido, quell’anno,  era sempre esaurito: solo posti in piedi per gli ultimi arrivati. I bagarini, ogni domenica, facevano affari d’oro in quel mitico 1979!

C’è rimasto male nel 2011 quando cominciarono i gravosi lavori di ristrutturazione del PalaLido, che oggi si chiama Allianz Cloud?

Allora, cominciamo col dire che io amavo il PalaLido di piazzale Stuparich quanto odiavo il Palazzo dello Sport di San Siro: parlo di quello collassato nel 1985 in seguito alla grande nevicata caduta su Milano. A San Siro il pubblico, a livello di spalti, stava troppo lontano rispetto ai giocatori e non c’era in alcun modo fattore-campo! Anyway. il PalaLido l’ho “picconato” simbolicamente nel 2011. Capiamoci, niente di ché: ho spaccato giusto una sedia di plastica e ancora attendo che l’Olimpia mi consegni un pezzetto di parquet originale come souvenir di quel luogo… (ride) Al PalaTrussardi invece ci ho allenato un solo anno, nel 1986/’87. Ora è chiuso da anni, ma dovrebbero metterci una targa-ricordo all’ingresso perché là si è disputata la leggendaria sfida tra la mia Olimpia e l’Aris Salonicco…

6 novembre 1986. Voi dovete recuperare ben 31 punti sui greci (che vi batterono all’andata 98-67) per non finire fuori dalla Coppa Campioni. Ne segnate 34 più dell’Aris, vincete 83-49 e passate il turno grazie ad una delle maggiori imprese sportive di ogni epoca. Sensazioni?

Eh, quella è stata sicuramente la partita più importante della mia intera carriera da coach. Oltre ad una delle cinque gioie più grandi della mia vita. Quattro di queste gioie restano private mentre la vittoria contro l’Aris è di dominio pubblico; e, a distanza di quasi quarant’anni, resta un argomento richiestissimo. Un dolce ricordo del quale mi chiedono sempre di parlare.

Gli Stati Uniti l’hanno mai premiata per i servizi diplomatici che lei ha reso alla sua nazione d’origine? Voglio dire: se l’Italia conosce un po’ meglio lo stile di vita americano, forse lo deve soprattutto ad un certo Dan Peterson…

Sì, una volta, doveva essere il 1998, quelli dell’ambasciata americana mi hanno omaggiato con una targa per i miei primi venticinque anni passati in Italia (Peterson arrivò da noi nel 1973 – dopo essere stato il capo allenatore della nazionale cilena – per guidare la Virtus Bologna. NdR). La mia fortuna, in ogni caso, è stata quella di conoscere un genio come Bruno Bogarelli, l’editore de I Giganti del Basket, vale a dire la rivista per cui scrivevo nei primi anni Ottanta.

Quel Bogarelli che nel 1981 comprò per primo in Italia i diritti televisivi delle partite NBA, salvo poi cederli a Berlusconi a partire dall’annata 1981/’82?

Esattamente lui! Bogarelli voleva una voce come la mia dietro il microfono perché ero uno l’unico a quei tempi a saper pronunciare correttamente i nomi e cognomi di quegli assi: Larry Bird, Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar, Julius Erving ecc. Qualche anno dopo, sempre sulle reti Fininvest, arrivò l’epoca d’oro del wrestling ed anche lì nuovo successo. Diciamo che si è trattato del giusto mix di fortuna, tempismo e fame del pubblico italiano per questi “nuovi” sport americani.

Arriviamo all’estate del 1987: lei molla l’Olimpia al culmine del successo. Quell’anno vince di fila Coppa Italia, Coppa dei Campioni e scudetto, e cede la panchina al suo vice storico Franco Casalini, scomparso prematuramente nel luglio del 2022. Lo stesso Casalini che, nei due anni successivi, farà altrettanto bene conquistando l’Intercontinentale, una seconda Coppa dei Campioni e lo scudetto del 1989 in una avvelenatissima finale contro Livorno. Come rilegge oggi quella sua drastica decisione?

Sono stato felice per Franco, ovviamente. Quando si fa un mestiere come il mio, uno dei motivi di maggiore gioia è veder vincere un tuo vice o un tuo ex giocatore. Eppure abbandonare l’Olimpia, a soli cinquantuno anni, è stato il più grande sbaglio della mia vita; anche se dopo – va detto – mi sono rifatto con TV, pubblicità, pubbliche relazioni e il ritorno nel 2011 sulla panchina di Milano.

Perché decise di dire basta?

In quell’estate del 1987 ero ancora “giovane” e dovevo solo levarmi un po’ di stress di dosso, ma non volevo prendere in ostaggio nessuno a causa dei miei capricci e delle mie indecisioni, tanto meno la mia amata squadra del cuore… Quindi è andata così. That’s life!

“That’s life” è una canzone famosa di Frank Sinatra. A proposito: lei li canta, e li suona ancora, il country e il blues?

No, qua stiamo parlando del passato ed io ormai ho appeso la chitarra al chiodo da un pezzo, nonostante il mio amico Guido Bagatta ogni tanto ci provi a farmi tornare “sulle scene”! (ride) Con la sei corde va così: o ti alleni su base quotidiana oppure dopo un po’ ti scordi tutto! E che figura ci fai se poi ti dimentichi gli accordi e la voce non è più quella di un tempo?

Artisti preferiti, Coach?

Tanti: Muddy Waters, il grande Willie Nelson (number one!), Chuck Berry. E poi la ragazza di colore con la miglior voce che abbia mai ascoltato in vita mia: Etta James. Molti mi dicono che la regina assoluta in tal senso sia Ella Fitzgerald, ma per me non c’è storia. Etta James numero uno! Poi vengono le altre.

Mi dica la verità: a livello di genetica si nasce Dan Peterson o lo si diventa?

Lo si diventa nel senso che io, ogni mattina e nonostante i miei ottantanove anni, faccio ancora pesi, cyclette, esercizi per la schiena ecc. Questa mia passione per lo sport la devo a mio padre che era un ottimo atleta e da giovane nuotava nel lago Michigan dato che noi Peterson veniamo da lì: Evanston, Illinois, un sobborgo di Chicago. Pensa che a quei tempi mio padre sfidava sui 400 metri, da molo a molo, un certo Johnny Weissmuller, grande nuotatore pure lui, che poi al cinema avrebbe interpretato Tarzan. Allo sport, inoltre, devo anche la mia nascita biologica…

Sul serio?

Sì, mio papà incontrò mio zio (ovvero il fratello di mia mamma) quando organizzava gli allenamenti alla Northwestern University di Evanston. In pratica mio padre era il coach di mio zio! (ride) Una volta mio zio, che aveva una sorella, invita a cena mio padre e lì scatta subito il colpo di fulmine. C’era un problema però: mia mamma all’epoca era ancora minorenne e quindi dovette aspettare il compimento dei vent’anni prima di poter sposare mio padre. Matrimonio che si celebrò una volta per tutte il 28 luglio del 1930. E infine il 9 gennaio 1936 nasco io: Daniel Lowell Peterson. Per tutti Dan.

Torniamo ancora un attimo a ‘La mia Olimpia’: il suo amico Massimiliano Finazzer Flory, nell’introduzione, ha scritto che anche a cent’anni uno come lei sarà ancora lì con la sua lavagnetta “a inventare schemi e a insegnare basket al mondo”. Un bel complimento, no?

Non lo so, cento anni sono davvero tanti… Magari, giunto a quel punto, darò giusto un’occhiata agli schemi e continuerò a detestare il tiro da tre punti che oggi è diventato una specie di dogma. Io, se devo essere sincero, la abolirei quella dannata regola. Il basket è sport da duri e si basa sia sulle azioni a tutto campo che  sulle battaglie sotto canestro. Non va giocato solo in prossimità dell’arco del tiro da tre…

Coach, ha paura del tempo che inesorabilmente passa per tutti?

No, perché ho mia moglie Laura sempre al mio fianco. Ok, sono vedovo della mia prima moglie e non voglio mancare di rispetto a nessuno, ma senza di Laura oggi probabilmente non sarei qui…

Cosa intende dire?

Nel 2019, appena prima del Covid, mi sono ammalato di una brutta polmonite che mi ha impedito di alzarmi dal letto per quattro mesi di fila. Bene, lei ha licenziato ben due medici che non riuscivano a guarirmi, non si è mai arresa e alla fine ha trovato un dottore che mi ha rimesso in piedi. Io, durante tutto quel tempo, ero arrivato ad un punto che non me ne importava più niente di niente. Eppure Laura non si è mai persa d’animo.

Vuol forse dire che non le faceva paura l’idea di morire?

No, ero abbastanza fatalista in tal senso. Prima di beccarmi quella polmonite pensavo che la morte mi facesse molto più paura ed invece no, la stavo affrontando serenamente. Anche oggi, che sono passati già sei anni da quei giorni terribili, accetto il processo della vita. Rallento e mi godo lo scorrere del tempo invece di stare teso e sotto pressione.

Mi sembra un bello schema, no?

Puoi ben dirlo. Ogni giorno, per me, è una nuova avventura. E, ora come ora, non ho timore né dell’oggi né del domani.

 (Intervista pubblicata originariamente su ‘Panorama di Novi’ – www.panoramadinovi.it – del 25 aprile 2025)

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