Le cronometro abolite dal Tour

28 Ottobre 2014 di Simone Basso

Complice un pirata informatico, il tracciato del Tour de France 2015 circolava già un paio di giorni prima della presentazione ufficiale. A una lettura attenta, pensavamo che quelle carte fossero (volutamente) incomplete, invece… Abbagliati forse dalla potenza cinematografica dell’apparato scenico – ASO ci sa fare – è stato curioso leggere, su quasi tutti i media, di una Grande Boucle moderna e spettacolare. “Me ha sorprendido que haya tan poca contrarreloy. Las etapas son màs cortas. Es un recorrido màs del estilo de la Vuelta”. Le parole di Alejandro Valverde, non le traduciamo nemmeno, leggono perfettamente il senso della prossima Festa di Luglio. Che – contravvenendo alla tradizione – ha messo assieme un tracciato atipico, volutamente squilibrato. E per certi versi demenziale. Intendiamoci, il Tour lo vincerà un campione, ma i nomi talvolta non giustificano gli artifizi degli organizzatori.

Trent’anni fa (1985) si disputò il Giro d’Italia più brutto di sempre. Costruito per il bis dell’idolo di casa e il ritorno in grande stile del suo acerrimo rivale: abbuoni pesantissimi, percorsi senza pendenze difficili e agonismo sedato. Una dozzina di arrivi allo sprint col plotone compatto o quasi. Eppure i primi tre sul podio finale furono Hinault, Moser e Lemond. Appunto. Prudhomme e soci, dopo un paio di edizioni de luxe, con altimetrie che seguivano una narrazione e un rispetto delle esigenze tecniche, hanno fatto una retromarcia niente male. Sono tornati indietro nel tempo, con la macchina di H.G. Wells, fino al 1933: ovvero l’ultima volta – dal 2015 – che la creatura di Desgrange fece meno chilometri individuali a cronometro. Zero, contro i quattordici della prossima stagione. Il tema è decisivo, perchè Amaury è il centro di gravità permanente del ciclismo. Spostano, fanno tendenza, e stabiliscono lo standard del giochino, modificandolo.

Se, almeno fino all’ottava tappa, l’abbrivio del Ricciolo è molto simile all’edizione passata, il piatto forte sembra abbracciare la filosofia della Roja. Una corsa monodica, televisiva, povera di chilometri, che uccide la biodiversità. La Vuelta de Francia flirta coi Bleus (soprattutto Pinot e Rolland), rilanciando il sogno di un transalpino in giallo ai Campi Elisi. Per farlo, vendono l’immaginario – poco fantasioso – della gara per arrampicatori. Sempre che sopravvivano alle trappole della prima settimana… Lo scenario sarà comunque straordinario: milioni di spettatori sulla strada e in tivù, vecchi e nuovi santuari ovunque (Neeltje Jans, il Muro di Huy, i Lacets de Montvenier, l’Alpe d’Huez) e i migliori atleti del mondo. Uno spettacolo sportivo dall’anima procteriana, sempre in vendita, rivolto alle telecamere e che mostra le spalle alla storia. Nel 2015, rispetto al 2014, mancheranno complessivamente 319,5 chilometri e (almeno) una prova contro il tempo. Sottolineiamo una dichiarazione di Patrick Lefevere: “Anche nel ciclismo moderno, velocisti e specialisti delle crono meritano rispetto. I Grandi Giri non si fanno solo con gli scalatori”.

Passano concetti pericolosi e stupidi come, per esempio, ritenere le crono individuali un esercizio noioso. Un’eresia, trattandosi del gesto più complesso, totale, della disciplina. Rilevatore estremo della classe del ciclista: motore, stile, concentrazione, potenza e agilità. E che permette, in una corsa a tappe, di allungare la classifica stabilendo le gerarchie (provvisorie). La gara con la generale “corta” e priva di lancette esalta il caos e l’equilibrio instabile, nonchè lo stress, all’interno del gruppo. Non c’è bisogno di sottolinearlo: molte cadute sono un prodotto di questa tensione, dell’incertezza della parte da recitare, quando tutti vogliono stare davanti. La selezione – in una competizione bonsai e senza cronometro – viene affidata quindi ai traguardi all’insù. Il risultato, al netto di qualche eccezione, è che i favoriti si marcano stretti fino all’ultimo gpm: alla recente Vuelta, tranne l’etapa reina, nessuno dei big si è mosso prima del cartello dei meno cinque.

A proposito di contenuti tecnici: c’erano ben 482,5 chilometri di differenza, quest’anno, fra Tour e Vuelta. Un’enormità. Prendiamo il rendimento di un ras (Valverde), uno che non ha nel dna la terza settimana di una manifestazione del livello di quella vinta da Nibali. A Parigi, quarto e deluso, 9’40” lo separavano dal siciliano. Un mese e mezzo più tardi, nella Roja tanto cantata dagli strilloni, ha concluso al terzo posto, a 1’50” da Contador. E l’Embatido, al contrario della Grande Boucle, la Vuelta non l’aveva mica preparata… La leggenda metropolitana delle pendenze estreme che esaltano i tifosi (?) e creano distacchi importanti è un falso storico, a cominciare da chi vaneggia dei tempi andati. Anche per motivi logistici, in passato, i traguardi sulle montagne erano pochissimi. Gli arrivi in salita, in linea, nell’Era dei Giganti non esistevano: furono introdotti solamente al Tour 1952 (l’Alpe d’Huez, il Sestriere e il Puy de Dome) e al Giro 1954 (l’Abetone). I tapponi venivano decisi, darwinianamente, dalle distanze percorse.

Se scorriamo il menù della prossima Festa di Luglio troviamo appena tre (!) tappe sopra i 200 chilometri; con la primula rossa della Seraing-Cambrai – fiera dell’acciottolato – che tocca i 221. L’epilogo poi assomiglia a una competizione femminile o juniores. La frazione numero diciannove (Saint Jean de Maurienne-La Toussuire) è lunga (..) 138 km. La penultima (Modane-Alpe d’Huez) 110 e la passerella parigina 107. Infine – last but not least – la cialtroneria di una cronosquadre inserita al nono giorno di contesa. Una scelta insensata, che l’Uci non dovrebbe accettare, e che sicuramente penalizzerà i piani di gloria di qualche pretendente al giallo: immaginiamo quante squadre si presenteranno alla Vannes-Plumelec con alcuni effettivi infortunati o ritirati.

In definitiva, per chiudere il cerchio, emergono due punti. L’esigenza di un organismo – interno e sindacale – che stabilisca delle regole per limitare l’eccesso di creatività (sic) degli organizzatori: imporre un minimo (e un massimo) di chilometri totali, nel disegno generale e per le crono; ridurre i trasferimenti massacranti che pesano sugli atleti e le equipe al seguito, eccetera.  Il Giro d’Italia presentato, in clamorosa controtendenza, ha un respiro e uno sviluppo tecnico di alto lignaggio: in quanto a varietà tattica, il confronto con la concorrenza non si pone neanche. Molto più bella, completa e logica la Rosa.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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