Come non licenziare Tom Landry

5 Agosto 2011 di Roberto Gotta

di Roberto Gotta
A oltre due decenni dalla sua acquisizione dei Dallas Cowboys l’atteggiamento di Jerry Jones verso il mondo esterno è il medesimo dei primordi: fermami, se ne sei capace. Ne sono stati capaci in pochi, anche nei giorni in cui Jones si è fermato a riflettere lasciando che fuori dalla sua porta il tempo scorresse più rapido di quel che auspicava.
E si tratta di un uomo che il tempo pareva averlo fermato, ogni volta che doveva intraprendere una nuova impresa, far collidere nuove teste, posare il piede in un territorio nuovo, senza voltarsi indietro alle prime urla dei proprietari. È successo varie volte, dal 1989 cioè dall’anno in cui Jones è diventato una celebrità, e succederà ancora, fin che sarà in sella ai Cowboys, perché è semplicemente parte della sua natura, sfidare tutto e tutti. Anche a costo di rendersi antipatico, odioso, nemico, cinico, caratteristiche che del resto è spesso difficile dissociare da personaggi che hanno avuto successo nel mondo degli affari lasciando ai margini della strada concorrenti feriti nell’anima e nel morale. (…). Accadde nel giorno di febbraio del 1989 in cui firmò l’accordo che decretava l’acquisto dei Dallas Cowboys. La somma pattuita era di 140 milioni di dollari, 40 in meno rispetto ai 180 richiesti dal 68enne Bum Bright, che si era deciso a cedere il club per affrontare con minori ansie un periodo di difficoltà generato dalla crisi della finanza e dalla drastica variazione del prezzo del petrolio. I 140 erano così suddivisi: 60 per il club, 65 per lo stadio, 10 per la sede di Valley Ranch e 5 in stipendi arretrati ai giocatori. Per racimolare la somma, Jones aveva dovuto trovare alcuni soci di cui avrebbe poi comprato le quote, farsi prestare 40 milioni da banche e finanziarie e promettere 80 milioni sui futuri proventi delle sue attività nel campo del petrolio e del gas naturale. Confessò qualche tempo dopo che l’esposizione e il rischio erano tali che al momento di apporre la firma sul contratto gli tremarono le mani, appunto: temeva di giocarsi, in quel momento, quasi cinquant’anni di lavoro, il suo e quello del padre, che gli aveva regalato l’avviamento alle attività economiche ma aveva posto le basi per una vita frenetica, di quelle in cui un attimo prima di tagliare il traguardo decidi che è più divertente spostarlo ancora in avanti per goderti l’inebriante e velenosa sensazione di conquistarti qualche passo in più.
La vicenda della cessione da Bright a Jones fu però drammatica per i risvolti che ebbe, sul piano emotivo e sul piano pratico. Ben progettata nelle intenzioni ma disastrosa nei risultati, tanto che ci fu nei quotidiani locali chi suggerì che l’intera storia fosse utilizzata nei corsi di pubbliche relazioni quale esempio di come NON si deve gestire una situazione di emergenza. E di emergenza si era presto trattata. Bright aveva acquistato i Cowboys e il Texas Stadium solo cinque anni prima da Clint Murchison Jr, che si trovava in ambasce economiche e aveva gravi problemi di salute che lo avrebbero portato alla morte nel 1987. 83 i milioni di dollari che Bright aveva pagato, con una condizione voluta da Murchison, un tizio bizzarro che all’epoca in cui aveva inutilmente chiesto alla NFL il permesso di aprire una squadra a Dallas si era vendicato del suo principale avversario istituzionale, il proprietario dei Washington Redkins George Preston Marshall, comprando tramite terzi i diritti alla celebre canzone del club, Hail to the Redskins: la condizione era che la struttura venisse gestita dalle persone competenti che già c’erano, ovvero Tex Schramm per il lato amministrativo, Gil Brandt per lo scouting e coach Landry per le questioni tecniche.
Scenario ideale: chi mette i soldi fa gestire le operazioni in autonomia da persone di fiducia e di dimostrata competenza, e se qualcosa va male saranno loro a pagare, ma non prima di avere avuto la possibilità di dimostrare il proprio valore. Del resto il trio Schramm-Brandt-Landry era in sella dalla fondazione della squadra, avvenuta nel 1960, e aveva portato a Dallas due Super Bowl, dopo difficili inizi in cui i Cowboys si erano creati la preoccupante nomea di squadra incapace di passare dallo stadio di successo a quello di trionfo, con un numero tale di sconfitte a un passo dal titolo che alcuni presero l’abitudine di chiamarli “Next year’s Champions”, cioè quelli che vinceranno, sì, ma l’anno prossimo, un anno prossimo che guarda caso si spostava in avanti ogni dodici mesi. I due trofei ospitati a Valley Ranch erano belli e lucidati ogni giorno dall’addetto in guanti bianchi, ma Bright aveva bisogno di vendere per tappare tanti buchi del suo bilancio personale, sceso in pochi anni da 600 a 300 milioni (che pochi non erano, in assoluto), e comunque non si trattava certo un sentimentale innamorato della squadra al punto da volersela tenere ad ogni costo: le cronache del tempo lo descrivono come il classico uomo d’affari per cui l’aggettivo “cinico” pare tautologico e dunque superfluo, interessato unicamente al profitto (e qui niente da dire) ma irrispettoso dei sentimenti delle persone che si frapponevano tra lui e il denaro (e qui NON va bene), e non stupisce dunque che molti suoi nemici o anche semplici osservatori esterni non furono poi così dispiaciuti di vederlo cadere in disgrazia, nei mesi in cui aveva posto in vendita i Cowboys. Non che fosse stato sempre impeccabile nella sua scelta di non interferire con la gestione della squadra: un paio di volte aveva criticato Landry per le scelte tecniche, atteggiamento generato in parte dal medesimo senso di onnipotenza che, da presidente del consiglio amministrativo di Texas A&M, lo aveva portato alla decisione di far cacciare coach Tom Wilson e assumere Jackie Sherrill, in parte perché i risultati non soddisfacenti delle ultime stagioni avevano fatto abbassare la media spettatori, frenato l’entusiasmo degli sponsor e causato in ultima analisi quella serie di mancati introiti che avevano contribuito alle sue difficoltà economiche. Una situazione grave per chi acquistando i Cowboys aveva sperato di vincere ma anche di trasformarli in una macchina da soldi.
Uno degli aspetti più critici e delicati della procedura di cessione riguardava la figura del 65enne Landry, unico coach che Dallas avesse mai avuto, in sella ormai da tre decenni e secondo alcuni, anche all’interno del club, forse un po’ fuori passo rispetto ai tempi. L’ultima stagione decente era stata quella del 1985, con la conquista del titolo della NFC East nonostante una squadra mediocre e la disfatta contro i Chicago Bears dell’ex assistente Mike Ditka (0-44 in casa), poi tre annate di fila con meno del 50% di vittorie, precipitando nel 1988 a 3-13. Terminata quella vincente stagione 1985, Landry aveva acconsentito a malincuore alla cortese richiesta di Schramm di modificare lo staff di assistenti ma aveva preteso un nuovo contratto triennale, un atteggiamento che aveva spedito in agitazione il general manager il quale, pur primo tifoso di Landry, sperava in una sua volontaria uscita di scena per risolvere la situazione senza decisioni drastiche e impopolari. Né aveva contribuito ad alleggerire la situazione la frase, «intendo continuare ad allenare anche negli anni Novanta», pronunciata poche settimane dopo la conclusione dell’annata 1988, quella del 3-13. A quel punto Schramm non aveva potuto esimersi

dal sottolineare come alla scadenza di quel contratto triennale, fine febbraio 1990, sarebbe stata necessaria una serissima e fredda valutazione della situazione: ma Landry era fiducioso, convinto che l’arrivo di Troy Aikman, che intendeva portare a Dallas con la prima scelta del draft 1989, sarebbe da solo stato sufficiente a risollevare la squadra e consentire contestualmente lo sviluppo di alcuni giovani che nell’annata precedente avevano accusato parecchie difficoltà di adattamento alla NFL. Inoltre, questa era la sua teoria, delle 13 sconfitte subite nel 1988 solo una, quella contro i Minnesota Vikings, era stata netta: tutte le altre erano arrivate per episodi fortuiti o negli ultimi quarti di gioco, dunque non in situazioni di palese inferiorità. Ottimismo da copertina, forse, quello del coach, spruzzato dal desiderio che tutte le componenti si rimettessero al posto giusto per ridare slancio ai Cowboys e consentirgli di restare in sella per altri anni ancora. Sperava inoltre di avere dato un impulso ulteriore alla propria posizione, e al progresso della squadra, cacciando poche settimane dopo il termine della stagione, Paul Hackett, l’allenatore dei Qb con cui aveva avuto divergenze di progetto e sul quale aveva sospetti di scarsa fedeltà alla causa.
Landry era dunque pronto a scegliere Aikman ed affiancarlo a Herschel Walker, il potentissimo running back, già vincitore dell’Heisman Trophy e stella inaugurale della lega USFL (se ne parla nel capitolo IX). Ma c’era un problema. Grosso. Immenso. Jerry Jones, cioè, non aveva nessuna intenzione di tenere Landry come coach, una volta acquistato il club. Aveva già pronto Jimmy Johnson, 46 anni, suo ex compagno di stanza alla University of Arkansas e vincitore come lui del titolo NCAA del 1964. Johnson aveva vinto nel 1988 il suo primo – resterà unico – campionato NCAA con i Miami Hurricanes ma aveva immediatamente accettato la proposta di Jones. Era texano, in fondo, anche se di zona profondamente diversa da quella di Dallas: veniva infatti da Port Arthur che è giù vicino alla Louisiana, zona di coste, vie d’acqua, paludi e lagune come la Sabine su cui sorge la cittadina. L’offerta di Jones naturalmente era legata all’effettiva conclusione dell’acquisto dei Cowboys, ma Johnson si era messo avanti con il lavoro, contattando già alcuni potenziali assistenti tra cui David Shula, figlio e primo collaboratore del celebre padre Don ai Miami Dolphins, nonché il suo addetto stampa a Miami, Rich Darlymple, ex giocatore di college di Division III e figlio di un semi-pro che aveva giocato in una lega cittadina con Johnny Unitas, il grande Qb dei Baltimore Colts.
Bright ovviamente era a conoscenza delle intenzioni di Jones, ma non aveva accennato dello stato della trattativa nemmeno a Schramm, che per quanto personaggio di immensa influenza, capo del potente Competition Committee della NFL e virtuale assistente del commissioner Pete Rozelle, da lui assunto anni prima come addetto stampa ai Los Angeles Rams, restava principalmente un dipendente dei Cowboys senza alcun potere su questioni di cessione. Non che Jones fosse l’unico a ritenere che Landry avesse fatto il suo tempo, che fosse rimasto ben oltre la data di scadenza del suo prodotto-football: pare che dei cinque candidati reali all’acquisto, rispetto alla rosa iniziale di… 75, solo due, il proprietario dei Los Angeles Lakers della NBA Jerry Buss e una cordata giapponese, avessero intenzione di lasciare l’anziano coach alla guida della squadra. Jones ebbe la meglio perché, nel modo che si è detto, riuscì a presentare la proposta più credibile, più liquida in tempi stretti e più ricca di energia dal punto di vista personale.
Sarebbe stato infatti lui stesso a prendere in mano la gestione della squadra, in un cambiamento radicale rispetto alle deleghe di Bright, il quale capì immediatamente quale poteva essere l’ostacolo maggiore di fronte al grande pubblico e anche ai dipendenti dei Cowboys: proprio la gestione del licenziamento di Landry. Con una delicatezza che non gli era riconosciuta, ma che in realtà si accoppiava ereticamente con il cinismo del quale era sempre stato un portabandiera, Bright fece una proposta a Jones: se vuoi davvero cacciare il coach, lascia che lo faccia io un attimo prima di cederti il club, così se la prenderanno tutti con me e ti lasceranno in pace. Pubblicamente, peraltro, Bright aveva chiesto a Schramm di non prendere alcuna decisione su Landry fino alla cessione. E questo, a contratto valido ancora per un anno, voleva dire non licenziare il coach. Per quale motivo dunque Jones non abbia accettato la proposta di Bright, che gli avrebbe tolto un immenso peso e gli avrebbe permesso di uscire bene dalla situazione, non si è mai saputo, ma qualche indizio c’è: prima di tutto Jones, così decisionista e pieno di sé, non desiderava lasciare ad altri alcuna scelta operativa, nemmeno quelle sgradevoli, ed è comunque certo che due note agenzie di comunicazione e pubbliche relazioni cui si era rivolto gli avevano consigliato caldamente di non delegare nulla, nemmeno il licenziamento di Landry. Avrebbe fatto meglio a fare tutto da solo, a metterci la faccia, per non dare segni di debolezza. Unico problema: in oltre 20 anni da uomo d’affari certamente non morbido, Jones non aveva però mai licenziato un dipendente di primo piano, mai, e di fatto non sapeva neppure come si facesse, sul piano dialettico. Sta di fatto che per qualche giorno la trattativa andò avanti tra Bright, Jones e i rispettivi consulenti finanziari e legali senza che nessun altro dirigente ne sapesse nulla. Grave ingenuità di entrambe le controparti fu però credere che il segreto potesse rimanere tale fino all’ufficialità. E infatti non andò così.
Il 23 febbraio 1989, giovedì, si era nella fase che i media italiani, mai timidi dinanzi a una frase fatta, definirebbero del “manca solo la firma” (cioè l’unica cosa che conta davvero!), quando un giornalista della più nota televisione locale, la KXAS che ritrasmette i programmi nazionali della NBC, telefonò a Schramm annunciandogli che un servizio nell’edizione del tg di tarda sera avrebbe dato la notizia dello stato avanzato della trattativa di cessione dei Cowboys. Schramm, dotato di un carattere spesso impulsivo ma abituato a decenni di autocontrollo, mantenne la calma, si ricompose e disse di non saperne nulla, e che dunque nulla aveva da dire. Il servizio andò in onda e fu un buon lavoro giornalistico: mettendo assieme segnalazioni giunte da fonti affidabili di Miami e da collaboratori di Bright dalla lingua troppo lunga, indicò infatti come imminente la firma di Jones e l’arrivo di Johnson a sostituire Landry. Il giorno dopo le voci crebbero di forza, e Schramm seppe che Johnson si stava informando per capire se fosse flessibile il termine ultimo (1 marzo) posto dalla NFL ai coach che intendessero contattare assistenti allenatori sotto contratto con altre squadre. Fu facile, per Tex, collegare tutto, e immaginarsi quel che sarebbe successo di lì a poco. Parlò con Landry, che era intanto volgarmente braccato dai media, e gli confesso «Temo che sia finita», ottenendo come risposta un sospiro e al tempo stesso la conferma che il coach non avrebbe cambiato di un minuto la sua trafila giornaliera di preparazione al draft e incontri tecnici con assistenti vecchi e nuovi. Testardo, illuso, forse onesto fino in fondo, com’era sempre parso a tutti. Ma le umiliazioni non erano finite.
Quella stessa sera, infatti, Johnson arrivò a Dallas sull’aereo personale di Jones, per guardarsi attorno. Speravano forse di passare inosservati, i due. Ma se Jones era un uomo d’affari piuttosto noto nel suo ambito eppure pressoché sconosciuto al grande pubblico, Johnson era diventato celebre guidando al titolo NCAA gli Hurricanes e permettendo loro di assumere comportamenti e atteggiamenti molto impopolari presso i grandi media e amati però da quella fascia di tifosi e appassionati, che esiste ovunque al mondo, che è attratta dal lato oscuro della forza di una squadra, non imp
orta se nel frattempo vengono violate alcune regole, prima di tutte quelle del buon gusto. Il Noto e il Meno Noto andarono a cena in un ristorante, noto pure quello ma con la n minuscola, e senza saperlo rischiarono di far precipitare subito la situazione: il quartiere del ristorante era quello dove abitavano i Landry, che frequentemente vi andavano a cena e solo per un caso non erano lì quella sera. C’era però Ivan Maisel, giornalista locale poi divenuto celebre in ambito nazionale con la rete Espn, che dopo un tentativo di conversazione con i due telefonò al suo giornale facendo mandare un fotografo: e il giorno dopo, sabato 25 febbraio, la foto dei JJ ritratti sorridenti a tavola apparve a tutto colore sulle pagine del Dallas Morning News, facendo aumentare la pressione nelle tempie dei protagonisti della vicenda, ormai avviata ad essere disastrosa sotto molti punti di vista.
Landry non fece una piega, come al solito, dando ragione a chi sospettava che il suo atteggiamento stoico nascondesse la caldera di un vulcano represso. E che il coach non perse la calma lo racconta quel che accadde appena dopo pranzo, quando la copia del quotidiano con la foto dei sorridenti Jones&Johnson, cognomi comuni in persone non comuni, ti sporcava ancora di inchiostro se la stringevi tra le mani: Landry infatti caricò la moglie Alicia e il figlio Tom Junior sul suo aereo, un Cessna che possiamo definire monofamigliare, e decollò tranquillo alla volta di Lakeway, un piccolo paradiso in terra, aeroportino, campo da golf, acque chiare di lago, dolce costiera frastagliata, casa per il weekend, gente che quando ti incrocia ti saluta con “howdy!” e la sensazione netta che tutto il male del mondo sia altrove, lontano, anche se in realtà a pochi chilometri c’è Austin, la città dove il coach aveva fatto il college, la University of Texas. Landry in realtà particelle maligne di quel male se le stava portando appresso, scorie della delusione che aveva dovuto mandare giù nell’apprendere da Schramm e dai media che dopo 29 anni la sua carriera stava volgendo alla conclusione proprio nella stagione in cui aveva progettato la rinascita.
Poche ore dopo, mentre Landry era al golf club, Jones fece il medesimo tragitto, ma a bordo di un aereo più grosso e potente, un LearJet di sua proprietà sul quale aveva fatto dipingere in poche ore il logo dei Cowboys. A bordo c’era anche Schramm, cupissimo. In mattinata i due si erano incontrati alla presenza di Bright e Johnson, e il cerchio si era ulteriormente chiuso. Schramm aveva chiesto di poter chiamare Landry, lo aveva trovato proprio al club e gli aveva semplicemente detto «Butta male, Tom». Poi aveva convinto Jones ad andare a Lakeway per comunicare personalmente al coach la sua intenzione di esonerarlo. «Il mio consiglio, di tutto cuore, è quello di andare a parlare a coach Landry prima di fare un annuncio di qualsiasi tipo». Arrivarono, e il coach li aspettava fuori dal golf club. Racconta Bob St.John nel suo libro che Landry iniziò con un gelido «Se lei è qui per farsi un po’ di pubblicità sappia che sta perdendo il suo tempo». Ma non era solo pubblicità, era un compito reale, gravoso, pensando al quale sia Schramm sia Jones avevano avuto momenti di angoscia, durante il volo. Jones perché sentiva di dover cacciare Landry ma era preoccupato di trovare resistenze e dover quindi ricorrere a parole forti e considerazioni sgradevoli, Schramm perché rattristato al pensiero del trattamento che stava per ricevere il suo collaboratore, al di là delle perplessità che anch’egli aveva avuto sullo sviluppo dei Cowboys sotto la sua guida.
Jones parlò. La sintesi: «Coach, non intendo confermarla. Mi dica se posso fare qualcosa per rendere meno scomodo e doloroso questo incontro. Mi dica se vuole restare con un altro compito. Ci terrei molto». Frasi su frasi, col viso terreo di chi ritiene di non avere scelta, per il bene della squadra, ma non avrebbe mai voluto vivere quel momento. Risposte brevi e secche, dall’altra parte, senza il minimo intento di mettere a suo agio l’interlocutore appena arrivato col jet personale. «Potevate gestire meglio questa situazione. Anzi, dovevate gestirla meglio». All’uscita, Jones era visibilmente turbato, e le parole successivamente pronunciate denunciarono questo stato d’animo. «Mai mi ero sentito fuori posto come in quell’incontro con coach Landry. Voglio rassicurare tutti coloro che hanno a cuore la sorte dei Cowboys che ho cercato di far vedere a Coach i miei occhioni blu non appena è stato umanamente possibile, considerare le circostanze. Ero molto attento a cercare di capire quel che provava mentre stava parlando con me. Alla fine dei conti, stavo cercando di dire cose che in realtà non si riescono mai a dire. Con me si è comportato magnificamente, se pensate a quel che ha subìto. È una persona speciale». Ma non all’altezza di allenare la squadra che Jones aveva comprato. Un ragionamento perfettamente logico e razionale, ma la procedura era stata gestita con quella involontaria, crassa prosopopea che avrebbe immediatamente reso il nuovo proprietario inviso alla maggioranza dei tifosi, quando invece la sua comparsa sulla scena avrebbe dovuto dare loro speranza. Perché gli stessi detrattori di Landry, quelli che mugugnavano da anni e sussurravano frasi in cui inevitabilmente comparivano riferimenti all’età del coach e alla sua distanza emotiva dai giocatori, non tolleravano che a esprimere sostanzialmente gli stessi concetti fosse un tizio che non avevano mai sentito nominare, un parvenu con l’aereo sotto casa che lo stesso Schramm, quando l’aveva visto stringere mani e salutare gente un giorno di qualche mese prima al Texas Stadium, aveva descritto come «Uno di quei tizi che girano attorno alla squadra e si danno da fare costantemente con i soldi».
La fine, la fine di Landry, di Schramm e della speranza di Jones di gestire una transizione non polemica arrivò in serata, a Dallas, quando il neo-proprietario e Tex tornarono da Austin e sedettero al tavolo della conferenza stampa che avevano fatto organizzare per frenare la fuga di notizie. C’è chi la ricorda come Il massacro del sabato sera, per la crudezza e la mancanza di tatto che Jones mostrò, a detta di molti. Prima di tutto invitando un gruppo di amici e parenti, che al suo arrivo si alzarono in piedi applaudendolo e lanciando i classici gridolini (yeehaw), molto locali, di esultanza e festeggiamento; poi lasciandosi andare a espressioni di entusiasmo e proclami che erano del tutto giustificati da quel che aveva appena fatto – aveva acquistato i Dallas Cowboys, santo cielo! – ma che parvero fuori luogo ai tanti presenti irritati per la gestione del licenziamento di Landry. Schramm l’aveva avvisato: stai attento, qui troverai gente ostile, prevenuta contro di te, legata a Tom anche se scettica sugli ultimi suoi anni, e a proposito evita di portare al tavolo anche Johnson, non è il caso. Consigli saggi, consigli utili di chi aveva a che fare con la stampa locale da decenni, ma che non servirono a salvare Jones. Massacrato da tutti. Il Morning News il giorno dopo, domenica 26 febbraio, uscì con un titolo asettico e molto giornalistico, Jones compra i Cowboys e caccia Landry, ma il giudizio del giornale, seppure espresso indirettamente, era nella scelta di inserire come titolo secondario la frase di commento del commissioner Pete Rozelle («La cacciata di Landry è come la morte di Vince Lombardi») e come immagine una foto che ritraeva Schramm, visibilmente accigliato, durante la conferenza stampa. In alto, sempre sulla prima pagina, l’annuncio di un inserto speciale sul faraone Ramsete II, in una sorta di involontario riferimento alla grandiosità extra-large delle ambizioni e della personalità del nuovo proprietario dei Cowboys.

estratto del quinto capitolo del libro 
FOOTBALL & TEXAS, di Roberto Gotta (editore Indiscreto)
www.footballetexas.com

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