Colonizzatori a chi?

30 Ottobre 2007 di Roberto Gotta

1. Per essere precisi, concisi, anche un po’ volgari: la NFL a Wembley è stata una figata. Ecco, detta. I motivi qui di seguito, per spiegare quella che altrimenti sembra un’espressione nata solamente da entusiasmo infantile che può funzionare come carburante, ma che fa arrestare il veicolo analitico ben prima del traguardo, quello di capire e far capire.
2. I fatti sono ormai noti, crediamo: domenica sera lo stadio di Wembley, quartiere di Brent, nord-ovest londinese, ha ospitato la partita di regular season tra Miami Dolphins, squadra di casa, e New York Giants. Richieste di biglietti oltre il milione, ma alla fine si erano liberati alcuni tagliandi, messi in vendita venerdì: erano quelli destinati ad alcuni giocatori dei Giants, che evidentemente non erano riusciti a mettere assieme un sufficiente numero di amici e parenti per il viaggio a Londra. Va detto peraltro che all’uscita della stazione della metropolitana di Wembley Park erano numerosi i bagarini, che nel Regno Unito rischiano grosso perché l’attività pubblica è vietata ormai da 12 anni. Del resto, dal loro punto di vista l’occasione era buonissima: un evento storico, e per l’appunto l’alta probabilità che viste le circostanze una quantità sufficiente di appassionati si sarebbe fatta viva nella speranza di rimediare un tagliando all’ultimo momento.
3. La vigilia era stata bizzarra ed elettrizzante al tempo stesso. Un enorme pupazzo animato di Jason Taylor, il defensive end dei Dolphins, era stato montato in varie zone di Londra per richiamare attenzione, e certamente lo scopo era stato ottenuto. Al cospetto del grande JT, ragazzotti e ragazzotte distribuivano ai passanti spille (“I am a Miami Dolphin”, “I am a New York Giant”) ed un piccolo omaggio che rifletteva lo studio perfetto che la NFL e l’agenzia londinese di PR assoldata per l’occasione avevano compiuto: un portatesserino, perfetto per custodire la Oyster Card, la scheda magnetica ricaricabile che da qualche anno è diventata lo strumento di pagamento per i mezzi pubblici preferito (e comodo) a Londra, e il cui uso è stato da poco esteso anche ai visitatori. Un oggetto che chi non ha la custodia “ufficiale” della Oyster potrà usare, dunque perfettamente adatto alla circostanza. Per promuovere la partita erano state in giro anche le cheerleader dei Miami Dolphins, così numerose da poter essere divise in due gruppi e poter essere così presenti in due luoghi in contemporanea, come è successo un paio di volte. Chiaro l’intento promozionale: con i biglietti tutti venduti non serviva attirare gente allo stadio ma ricordare alla gente che c’era la NFL a Londra, che la partita si poteva guardare in Tv (solita diretta su Sky britannica, che manda in onda 125 partite NFL in diretta ogni anno, sui suoi vari canali, ma il Super Bowl stavolta lo manderà anche la BBC) e che magari si poteva pure acquistare un souvenir, anche se a dire il vero la presenza del merchandising è stata molto discreta e non molto varia nell’offerta. Tra l’altro lungo la Wembley Way, la celebre camminata da Wembley Park allo stadio, c’erano pure 2-3 chioschi con prodotti taroccati, o meglio con caschi e…sciarpe con i colori delle due squadre e generici nomi “Miami” e “New York”. Evidentemente la NFL si era portata appresso decine di persone ma non gli addetti al controllo dei diritti di merchandising, che invece di norma durante la regular season e al Super Bowl piombano (giustamente) sui taroccatori. Poi non è che cheerleader e pupazzi potessero iniettare ad un’intera metropoli la passione o il fermento per il football: Londra, sempre bellissima, sempre struggente persino nel caos, sempre infinita, sempre con tante persone che fanno la fila ovunque e ti permettono di rilassarti e non sprecare energie ad infuriarti per i salta-fila come qui in Italia, è semplicemente troppo grande e troppo impegnata per perdersi dietro ad una sola passione, e il paragone con tutta la gente che prima della finale mondiale di rugby di pochi giorni prima era stata vista in giro con la maglia della nazionale o la classica bandierina sul furgoncino bianco (“the man in the white van” è una classe sociale in sé, lassù) non tiene: lì era tifo per la squadra di casa, e in uno sport radicato nella cultura locale.
4. Su un altro livello, il profondo lavoro della NFL per trovare risalto sui giornali e negli altri mezzi di comunicazione ha pagato, sostanzialmente: c’è stato chi ha scritto che la NFL è una moda e non una passione radicata, chi ha accolto la novità con entusiasmo senza riserve, chi è andato un po’ oltre, ma nessuno, perlomeno sui grandi quotidiani, ha sparato la solita cretinata della “colonizzazione”, e non solo perché di tale pratica del resto i britannici sono esperti da secoli. Semplicemente, nessuno è costretto a vedere la NFL in Tv o dal vivo se non vuole, un concetto libertario così palese che nessuno nel Regno Unito ha sentito il dovere di ricordarlo. Sempre sul piano giornalistico, interessante quanto detto da Cam Cameron a proposito del parallelo tra calcio, che come noto in USA è praticatissimo a livello giovanile, e football: «Un allenatore di calcio mi ha detto che molti ragazzini che iniziano con il soccer passano poi al football perché il calcio per loro non è abbastanza fisico… Ho fatto le mie ricerche, e in tutto il mondo, non solo negli USA, c’è una parte della popolazione di sesso maschile che vuole contatto fisico». Interessante. Così come è tra l’interessante e l’inquietante ciò che è emerso da una conferenza chiamata Sport2020, organizzata dall’Economist (scusate, “l’autorevole Economist”) con la partecipazione di molti proprietari di squadre della Lega: se il football pro arriva in Europa – forse in Germania e ancora a Wembley nel 2008 -perché allora la Premier League non può fare Arsenal-Liverpool a Hong Kong? Eggert Magnusson, che molti credono sia il proprietario del West Ham United ma che è in realtà è solo il presidente e azionista, appoggia l’idea, ma Randy Lerner, padrone dell’Aston Villa – e americano – è contrario. Per quel che conta, concordiamo con Lerner: la Premier League è più popolare della NFL, nel mondo, ma una parte importante del suo richiamo è data dall’ambientazione delle partite, dagli stadi, dall’atmosfera che solo negli stadi britannici si crea. Portsmouth-Fulham al Fratton Park è di livello tecnico modesto ma si gioca in un ambiente magnifico, Portsmouth-Fulham a Singapore è solo di livello modesto, senza atmosfera. Mentre la NFL è il meglio che ci sia dal punto di vista tecnico, e dunque anche portare una delle due peggiori squadre del momento, Miami, non cambia molto (anche se pure noi riteniamo che la NFL si debba giocare in USA, punto e basta). Né si deve pensare che i padroni delle squadre NFL siano tutti entusiasti delle partite all’estero: Jerry Jones dei Cowboys non ne vuole sapere, e in generale anche i coach non sono particolarmente entusiasti, come abbiamo già scritto. Tom Coughlin dei Giants, peraltro mai un allegrone, pur ringraziando tutti, ha detto «sarò felice di dare la mia opinione al commissioner a proposito di alcune delle questioni che possono sorgere», ma il parere degli allenatori non avrà mai peso nelle future decisioni.
5. Allo stadio? Della partita, non particolarmente spettacolare, un po’ per la pioggia e il campo presto disfattosi, un po’ per… i Dolphins e i Giants, c’è poco da dire, e il paradosso è proprio qui se vogliamo: la NFL ha deciso che questa era una normale partita di regular season, solo giocata all’estero? Ebbene dal momento che un normale Miami-New York finito 10-13 (ma anche 0-40) non avrebbe ricevuto menzione in questa rubrica, della gara in sé non facciamo menzione, ovvero aderiamo al concetto. Quello che era diverso, e degno di nota, era il contesto, non la partita. Alla quale, dunque, hanno assistito 81.176 spettatori. Qualche decina di seggiolini rossi è rimasta vuota, purtroppo per la NFL a favore di telecamera. Di solito, in casi del genere, è perché si tratta di biglietti regalati dagli sponsor a gente che causa il maltempo non se l’è sentita, perché evidentemente non appassionata a

sufficienza, o magari la zona con quella cinquantina di posti era quella dei giocatori dei Giants, che la NFL non è riuscita a vendere perché la disponibilità era troppo ravvicinata rispetto alla partita. Una curiosità di molti addetti ai lavori era quella di analizzare la composizione del pubblico. Premessa: in Gran Bretagna il boom del football era iniziato più o meno nel periodo in cui analogo fenomeno si era verificato in Italia, ovvero 1984, e per i medesimi motivi, ovvero l’improvvisa comparsa in Tv delle partite NFL e del Super Bowl, ma era andato avanti molto più a lungo, fino al 1998, quando la NFL era passata dalla televisione terrestre al satellite, un’annotazione MOLTO interessante. Tornando ai tifosi e ricordando che da Miami si erano mossi in pochissime migliaia, in giro dalle parti dello stadio si vedevano parecchie maglie di squadre europee di football, indossate evidentemente da giocatori o allenatori che avevano deciso di fare la trasferta per onorare l’occasione e magari compiere il sogno di vedere una partita NFL, ma la prova sonora, quella più affidabile, ha dato invece esiti diversi. Senza la pretesa di scientificità, un buon 90% dei presenti era britannico: lo si è capito dall’ovazione per uno dei due capitani onorari, Martin Johnson, capitano dell’Inghilterra campione del mondo di rugby 2003, e per il pilota di Formula 1 Lewis Hamilton, ed anche dai… buuu per l’altro capitano d’onore, John Terry, nonché dall’entusiasmo per l’inno inglese. Troppo vistosi, entusiasmo e calore, per non pensare che venissero da un pubblico in grande maggioranza britannico.
6. Intanto, a Miami, i non pochi tifosi che nonostante il pessimo rendimento della squadra erano indispettiti per la perdita di una delle otto gare casalinghe hanno potuto approfittare, al Dolphin Stadium, di una giornata a tema. Domenica è infatti stata il Double Decker Day, dove double decker è il nome degli autobus inglesi (non solo londinesi): parcheggio e ingresso gratis, diretta (erano le 13) su schermo gigante, musica e scelta gastronomica a base di prodotti britannici (fish&chips, per dire), e persino un classico, ovvero due sosia, della Regina Elisabetta e di Sean Connery (che è scozzese).
7. Di Wembley diciamo pochissimo. Sarebbe patetico dilungarsi in descrizioni, visto che se ne parla da mesi, ci limitiamo ad evidenziare la larghezza enorme dei corridoi, dietro alle tribune, dove ci sono i chioschi di souvenir e di gastronomia. Mai vista un’ampiezza del genere, parliamo di non meno di 20 metri ad occhio e croce, neppure negli stadi americani di nuova generazione, anche se non abbiamo ancora visitato né quello di Denver né quello di Phoenix dove si giocherà il Super Bowl tra tre mesi.
8. Dunque, successo strepitoso? Diremmo proprio di sì. Riassumendo: stadio pieno, gente attenta, competente e desiderosa di football al punto da avere fischiato (in realtà i soliti “buuu”) le ultime tre azioni dei Giants, che per far finire la gara hanno semplicemente effettuato lo snap con il quarterback Eli Manning che si è subito inginocchiato, nessuna esagerazione propagandistica, una partita… normale, quale le due squadre avrebbero giocato ovunque, senza alcuna concessione al misterioso concetto di spettacolo. Poi, per fortuna, quelli della NFL sanno che il successo dell’iniziativa va solo parzialmente valutato ora. Come ha detto già alla vigilia Alistair Kirkwood, direttore esecutivo del ramo britannico della NFL, «penso che l’esame maggiore sarà quello della quarta o quinta partita. Per questa avremmo potuto vendere anche il triplo dei biglietti, ma prima o poi non ci sarà più l’effetto della novità e giocheranno due squadre che magari non avranno lo stesso grande nome. La partita di domenica la valuteremo su tre fronti: quello logistico, ovvero cercando di capire se le squadre pensano che sia andato tutto bene, quello dei tifosi, ovvero quelli qui e quelli negli USA, e retrospettivo, ovvero appunto capire tra tre anni dove questa iniziativa ci avrà portato. Una partita come questa deve portare ad altro, e non saranno solo le prossime 72 ore a dircelo». Ecco, ragionamento corretto, non condizionato dal tutto esaurito di una partita sola.
9. Una chiusura doverosa per un evento davvero particolare. Quello che è successo in una partita di Division III NCAA tra Millsaps e Trinity infatti è quasi irreale: 15 passaggi laterali o all’indietro, sull’ultima azione della partita, al cospetto di una difesa incapace di compiere un placcaggio decente, o meglio di compierlo su un avversario che avesse ancora la palla in mano, forse per stanchezza. Trinity ha vinto così. E specifichiamo che se in ogni azione può essere effettuato un solo passaggio in avanti, non c’è limite al numero di passaggi di lato o all’indietro, e in quei casi quando la palla colpisce il terreno non si tratta di passaggio incompleto (la regola infatti vale solo per i passaggi in avanti) ma di fumble e dunque la palla può essere ripresa. In più, come ovvio, nel football l’utima azione viene completata anche se il tempo di gioco è finito, perché conta il momento in cui è iniziata. Ecco il video, tratto dal sito espn.com: http://sports.espn.go.com/broadband/video/videopage?videoId=3083220&categoryId=2564308&n8pe6c=1

Roberto Gotta
chacmool@iol.it
http://vecchio23.blogspot.com

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