Anni Ottanta
Cobra Kai è fatto per noi
Stefano Olivari 29/09/2020
Cobra Kai è una serie televisiva che sembra fatta apposta per noi adolescenti degli anni Ottanta ed è per questo che guardandola su Netflix abbiamo sperato non finisse mai, centellinando ogni puntata delle prime due stagioni. Anche se sappiamo già che ce ne sarà una terza, visto il successo strepitoso di quello che a tutti gli effetti è un sequel di Karate Kid (Karate Kid-Per vincere domani il titolo italiano), uno dei film di culto di un decennio insuperabile sotto il profilo della creatività.
I segreti di questo successo sono molti, ma il principale è quello di avere utilizzato nei ruoli chiave gli stessi attori del 1984: Ralph Macchio nei panni di Daniel LaRusso, William Zabka in quelli di Johnny Lawrence (il biondo che Daniel batte in finale all’All Valley Tournament), addirittura anche Martin Kove, fantastico caratteristica di tantissimi film d’azione, qui nei panni di John Kreese, e come Macchio (Zabka c’è solo in qualche scena del secondo) presente nei sequel cinematografici di Karate Kid, molto validi ma chiaramente inferiori al primo, diretto da John Avildsen (Rocky può bastare come curriculum?). Ovviamente non presente il maestro Miyagi, visto che Pat Morita è morto 15 anni fa, ma la sua figura sempre evocata.
Tornando alla serie che per venti episodi ci ha emozionato, bisogna dire che qui il vero protagonista è Johnny, personaggio complesso e con quell’etichetta di fallito che permette sempre mille variazioni sul tema. Di fatto non vede mai il figlio Robby, vive di lavoretti ed imputa alla cattiva educazione datagli da Kreese e dal suo Cobra Kai molti dei suoi fallimenti. Difendendo un ragazzo ispanico, Miguel, da bulli locali (siamo sempre in California), gli si riaccende la fiamma del karate e del Cobra Kai, che si mette in testa di ricreare ma a modo suo, avendo come primo allievo proprio Miguel. Le battute migliori della serie sono state scritte per lui, che fra i vari suoi nemici ha la tecnologia e il nerdismo.
Da qui partono tutti gli intrecci perché nemmeno Daniel, affermato concessionario di auto, ha dimenticato il karate e gli insegnamenti del maestro Miyagi. Il legame delle loro vite con i traumi di quelle giovanili è continuo ed è la parte migliore della serie, ciò che la rende unica. Perché Daniel diventa un po’ il Miyagi di Robby e la situazione si fa esplosiva con tanto di lotta per interposto adolescente. Senza contare che Miguel e Robby si contendono Samantha, figlia di Daniel e anche lei karateka del genere Miyagi, non di quello ‘Vincere è l’unica cosa che conta’ di Kreese.
La parte più seria e inquietante della serie è quella sulla genesi del bullismo, situazione in cui i carnefici sono spesso ex vittime (notevole l’evoluzione di Falco), e sul senso di inadeguatezza che avvelena la giovane età di quasi tutti. Nemmeno nella sua accezione difensiva, alla Miyagi, il karate è la risposta, anche se può farti tornare a casa salvo (a volte però a pezzi, se trovi uno più bravo), e Cobra Kai lo suggerisce abbastanza chiaramente.
Spoilerare è sempre grave, nel caso di Cobra Kai anche di più, perché questa serie è quasi commovente e va vista da ogni essere umano che abbia apprezzato Karate Kid. Che non sarà grande cinema, se vogliamo stare nel decennio il capolavoro immortale del genere Teen è Breakfast Club, ma è un cinema che accende sempre qualcosa e che fa riflettere, grazie anche al suo sequel. Chi è un perdente nella vita? Un po’ come Johnny, negli anni Ottanta avremmo saputo dirlo con precisione, mentre oggi no. Ma soprattutto non ci importa.