Chiuso per Kenya

22 Ottobre 2012 di Stefano Olivari

Il dominio kenyano nelle corse su strada, in particolare nelle maratone, sta diventando un problema serio. Lo scriviamo dopo avere visto la maratona di Amsterdam dominata da Wilson Chebet, con una progressione impressionante negli ultimi 5 chilometri, davanti a cinque etiopi (Assefa e Gebretsadik, secondo e terzo, erano al debutto sulla distanza) quatto keniani dal settimo al decimo posto, un qatariota tarocco all’undicesimo (Essa Rashed nasce Kipkosgei e per il Kenya ha anche gareggiato in Giochi Olimpici e Mondiali). Primo degli europei, per non dire più onestamente dei bianchi, l’olandese Michel Butter arrivato dodicesimo sfondando il muro delle 2 ore e 10 e facendo il proprio personale. Sempre ieri, sempre nella maratona, Wilson Loyanai ha vinto a Gyeongju (Corea del Sud) una gara che sta crescendo come montepremi e come considerazione della IAAF, mentre a Birmingham nella mezza Micah Kogo ha vinto davanti all’etiope Kuma e all’eritreo Tadese (il bronzo olimpico di Atene nei 10mila era lo strafavorito della vigilia). Fermiamoci qui, evitando l’elendo di tutte le corse e corsette del fine settimana per cui si potrebbero ricordare classifiche con nazionalità analoghe e veniamo al punto. In un’Europa in crisi finanziaria, o che comunque non ha più soldi da buttare via, i cosiddetti investimenti in comunicazione (cioé soldi dati all’organizzatore amico, con corrispettivi di vario tipo) da parte di banche, enti locali e sponsor generici sono i primi ad essere tagliati. Una crisi che non ha ancora toccato le grandi maratone, che peraltro si sostengono anche con le iscrizioni, ma che sta ridimensionando il resto dell’attività su strada. Per non parlare dell’atletica su pista, moribonda in tutti paesi con sport di squadra bene organizzati. Perché, diciamolo, se lo sport è equiparato allo spettacolo è allora  molto più divertente guardare una partita di calcio che gente che ripete per decine di chilometri lo stesso gesto. Quei pochi che volessero investire sull’atletica potrebbero quindi legittimamente chiedersi: che ritorno di immagine ho da una corsa dominata dal cinquecentesimo keniano che è sconosciuto anche al suo paese? Per risolvere il problema della mancanza di campioni di casa non ci sono purtroppo soluzioni strutturali: né sportive, perché in Italia o in Inghilterra i giovani più dotati avranno quasi sempre calcio o altri sport di squadra come prima scelta, né razzistiche perché impedire (magari anche con magheggi legali) ad un africano di iscriversi a una corsa significherebbe uccidere l’essenza stessa dell’atletica. Dove non si vince per raccomandazione, per immagine, per giochetti di corridoio o per l’arbitro, ma solo perché sei andato un po’ più forte degli avversari e puoi avere una chance anche se vieni dal villaggio più sfigato del mondo.

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