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Che brutto The Last Dance

Stefano Olivari 29/04/2020

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The Last Dance è stato una grande delusione, in rapporto al materiale pazzesco a disposizione: l’ultima stagione dei Chicago Bulls di Phil Jackson, Scottie Pippen, Dennis Rodman e soprattutto Michael Jordan, la 1997-98. Siamo come quasi tutti arrivati alla quarta puntata sulle dieci della serie di ESPN e Netflix e un po’ ci siamo annoiati: non per la popolarità della materia, anzi di solito amiamo il ripasso, né per la qualità di immagini e montaggio (purissimo stile 30 for 30), ma per la banalità del racconto riguardante una squadra che abbiamo amato tantissimo, LA squadra di pallacanestro degli anni Novanta, con IL campione.

The Last Dance è di base un monumento a Jordan, magari anche giustificato visto che stiamo parlando del più importante giocatore di sempre, ma poco interessante e del resto le biografie autorizzate hanno questo problema. Il fatto è che qui la storia è autorizzata da tutti i protagonisti, visto che quasi tutti hanno partecipato con interviste e un buon atteggiamento. Il risultato è stato la rinuncia alla minima profondità, anche quando si sfiora il retroscena. Certo non sono grandi rivelazioni i festini della vecchia NBA, quella che Jordan ribaltò, le fughe di Rodman, la filosofia di Jackson o gli scazzi fra Pippen e Jerry Krause.

Già, Krause. In questo volemose bene all’americana, ben confezionato, l’unico di cui davvero si parla male è proprio il general manager che quei Bulls costruì pezzo dopo pezzo, anche se Jordan se l’era trovato servito da Rod Thorn e dal suicidio dei Blazers con Sam Bowie. Fu Krause a scegliere Pippen e Grant, ma soprattutto ad imporre a Jordan lo scambio di Oakley, quasi una sua guardia del corpo, con Cartwright. Alla base del secondo trittico di vittorie altre scelte di Krause, morto tre anni fa, prese contro il volere di Jordan e soprattutto di Pippen, su tutte Toni Kukoc. Ma anche Rodman, per la fama e per il passato nei Pistons, non fu accolto benissimo dal cosiddetto spogliatoio: per renderlo da Bulls ci volle tutta la furbizia di Jackson nel gestire i devianti.

Per questo abbiamo trovato vomitevole che le uniche critiche di un documentario abbastanza istituzionale e condiviso siano state riservate ad un morto. Al quale Jordan non ha ancora perdonato di essere stato il parziale ispiratore (forse) di The Jordan Rules, il grandissimo libro di Sam Smith sul primo anello dei Bulls, tutt’altro che un libro critico con Jordan ma che comunque mostra la sua durezza con i compagni.

Krause è trattato con sufficienza anche da Jackson, nonostante Tex Winter, non a caso anello di congiunzione fra i due, tenesse Krause in grandissima considerazione. The Last Dance si lascia quindi guardare, a maggior ragione in un periodo senza partite, ma le agiografie sono sempre fastidiose. In sintesi: un prodotto per nostalgici degli anni Novanta, così come ce ne sono tanti per quelli di Ottanta e Settanta.

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