Il caso Fitzgerald, gli scrittori sfottuti da Grisham

1 Agosto 2017 di Indiscreto

Pochi scrittori si pongono il problema di conoscere il proprio pubblico potenziale, pochissimi sanno come i libri vengano venduti. Ci voleva un maestro artigiano come John Grisham, con il suo Il caso Fitzgerald, per ironizzare nello stesso tempo su chi scrive, su chi vende e su chi ha il culto dei libri come oggetto. Fitzgerald sta ovviamente per Francis Scott, lo scrittore che tutti gli scrittori vorrebbero essere ma che in realtà il successo vero lo avrebbe raggiunto da morto. Protagonisti sono i manoscritti originali dei suoi cinque romanzi (oltre ai quattro noti a tutti c’è anche l’incompiuto Gli ultimi fuochi), custoditi dall’università di Princeton e dal valore enorme. Assicurati per 25 milioni di dollari, si dice possano valere infinitamente di più ma poi in pratica, quando una banda ben sincronizzata mette a segno il colpo passano effettivamente di mano per un milione. Ci sono due indagini parallele, dell’FBI e della compagnia assicurativa, ma la trama è per una volta, anche se stiamo parlando di Grisham, marginale.

Mercer, una scrittrice in difficoltà finanziarie, viene incaricata di carpire informazioni a Bruce Cable, importante libraio della Florida (di Camino Island, titolo originale dell’opera) e sospetto trafficante di manoscritti rubati. La storia va avanti e si conclude con mestiere, anche troppo, con Grisham che mostra il genio del vero romanziere soprattutto nell’affrescare la società letteraria di quella città di provincia. Scrittori commerciali disgustati dalla loro stessa opera, altri che cavalcano l’onda occupandosi di cose tipo vampiri, genii incompresi ma senza una sola buona idea, alcolizzati innamorati più della vita dello scrittore che della scrittura, quasi tutti con problemi finanziari, tutti invidiosi nascosti dietro la conversazione brillante e tutti più o meno apertamente alla ricerca del grande romanzo americano, qualsiasi cosa voglia dire. Fitzgerald può rendere l’idea, al punto che la sua vita, quella di Zelda e di Hemingway vengono ironicamente (ma la scrittrice non capisce l’ironia) suggerite come trama di un grande romanzo, come se la sola presenza di Fitzgerald assicurasse l’eternità. Così come ironiche sono le definizioni di buono e cattivo, la formazione da avvocato del democratico Grisham è sempre ben presente in ogni pagina e nella produzione fuori dai legal thriller lo è paradossalmente ancora di più.

Al di là dei suoi traffici borderline Cable non è soltanto un bravissimo commerciante, sinceramente innamorato dei suoi prodotti e con un successo costruito nel tempo, ma anche l’unico in quel circolo intellettuale che davvero legga libri. Sono le pagine migliori, con Grisham che gli mette in bocca il suo pensiero sulla maggior parte dei romanzi e che vengono pubblicati: i prologhi spesso lunghissimi, con temi e personaggi che vengono a volte ripresi dopo quattro o cinque capitoli quando il lettore si è già dimenticato tutti; il numero enorme di personaggi buttati in campo, andando per accumulo; l’abuso di parole difficili, difficili anche per un lettore di cultura medio-alta; la scomparsa delle virgolette, che rende difficile capire chi stia parlando e se stia parlando, come se le virgolette fossero uno scandalo; la mania di spiegare qualsiasi cosa, appesantendo pagine e concetti. È evidente che Grisham non si rivolga agli aspiranti scrittori e nemmeno ai ‘commerciali’ che queste cose le sanno già, ma proprio a quelli del grande romanzo americano, i Franzen della situazione, facendoli sfottere da un libraio. Una grandissima lezione di letteratura popolare, mascherata da romanzo commerciale.

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