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Carciofi alla romana in salsa tunisina (solo a Milano)
Dominique Antognoni 12/01/2015
Quando la realtà supera la finzione un po’ sei in difficoltà perché rischi di non essere creduto. Spesso ti dicono che sei simpatico e che racconti storielle con un certo spirito, ma purtroppo non è così. L’abbiamo presa alla larga perché il caso è spinoso, soprattutto di questi tempi. Non che qualcuno ci abbia regalato qualcosa o che dobbiamo spiegazioni in giro, però i benpensanti sono sempre armati fino ai denti perfino all’ora della siesta, in vacanza e nel weekend, sempre pronti a fare i difensori d’ufficio di gente indifendibile. Così, per sport. Nella nostra storia di oggi non c’entrano però politica o religione, ma soltanto (si fa per dire) la sudditanza psicologica dell’italiano medio, mascherata da educazione, nei confronti di chi arriva dal Terzo Mondo. Una sudditanza che non è notata dalla maggior parte degli italiani, ma che è evidente a chiunque arrivi da fuori.
I fatti. Il ristorante si trova in piena zona Brera, a Milano. Profumo di milanesità, ammesso che nel 2015 possa ancora significare qualcosa. Qui abita parte delle famiglie che hanno fatto la fortuna della città (ma più che altro la loro), molte vivono senza lavorare: merito dei bisnonni che si sono sporcati le mani per creare ricchezza, sperperata o se volete erosa pian piano dagli eredi, morbidi e buoni solo a prenotare alberghi a Courmayeur e ristoranti stellati. Comunque si tratta in media di gente educata, perbene, senza occhi da tigre e voglia di faticare ma comunque gente che sa apprezzare il buon cibo, essendo cresciuta con buone cuoche (mai la madre) in casa. In tanti preferiscono scendere e cenare al ristorante sotto casa piuttosto che mettersi ai fornelli, visto che per molti di loro si tratta di una fatica immane perfino toccare il tasto “on” per farsi il Nespresso.
Un gentile signore di altri tempi, anni 75, ha acquistato tre ristoranti nella zona. Disponibilità economica tanta, però qualche crepa in certi meccanismi e nei pensieri la si nota. Basta guardare la compagna, una ex cameriera bulgara ora promossa a quasi moglie in attesa dello scatto di carriera. Età? Sulla trentina, forse qualcosa di meno. Ovviamente sa tutto su tutto e, per la cronaca, apprezza poco la cucina stellata, perché la considera troppo complicata da capire (per lei di sicuro, senza offesa per i raffinati ristoranti di Plovdiv). L’anziano signore, che ha fatto tanti soldi nell’età della ragionevolezza, ora ha le idee confuse: d’altronde come potremmo considerare la sua decisione di mettere in cucina un tunisino arrivato in Italia con gli sbarchi clandestini e che ha iniziato come lavapiatti? Non stiamo parlando di una pizzeria o di un autogrill, ma di un ristorante ambiziosissimo. Sia chiaro, onore al merito: anche noi abbiamo lavato i piatti nei ristoranti (mentre il direttore di Indiscreto si è limitato a servire ai tavoli). Ma nel centro di Milano e in un locale che vuole fare tendenza forse, ma diciamo forse, ci vorrebbe uno chef che, minimo minimo, abbia seguito un corso di cucina italiana. O anche solo di cucina… È una personale opinione, di uno che non è nato in Italia.
A onor del vero il posto attira i clienti, l’affluenza è buona. La nuova direttrice si è messa in testa di far diventare il ristorante un punto di riferimento (qualsiasi cosa voglia dire), nel marketing ci sa fare. Poi c’è la cucina, però… Il cuoco, un mostro di negatività e presunzione, la chiama fin dal primo giorno “sorellina”. Fatichiamo ad immaginare un dipendente del Corriere della Sera a chiamare De Bortoli fratello, però ovviamente ci sbagliamo anche qui. In Tunisia si vede che, come nei commenti alla Malù che sentiamo in Coppa d’Africa, sono davvero tutti fratelli. “Tutti nasciamo e tutti moriamo” ci dice filosofeggiando il cuoco, facendoci capire che se domani incontrasse la regina d’Inghilterra le direbbe “Scusa sorella, ma hai un abito di merda e un capello da cretina”. In Tunisia di sicuro ci si da il cinque alto con il re, per cui capiamo bene la sua scioltezza.
Tornando alla iper-attiva direttrice: fa sul serio e organizza una serata con due prime firme del giornalismo gastronomico italico. I piatti non sono chissà cosa, ma alcuni nemmeno malvagi: il voto è bassino, emozioni zero, cucina pasticciata invece tanta. Nessun futuro, nessuna identità, tanto grigiore. Né tradizione, più o meno rivisitata, né creatività. In altri paesi lo chef sconosciuto e senza curriculum arriverebbe e prenderebbe appunti, ringraziando per il disturbo i due critici. Invece no: esce dalla cucina sudato e leggermente lercio, prende male perfino i complimenti per alcuni piatti. Sorride superiore, manco fosse Gordon Ramsay, e inizia un discorso da brividi. Lo sintetizziamo: “Fratello, io se devo dire una cosa la dico, non accetto di vivere con la testa abbassata, a me non interessa, non voglio fare ombra su questa terra. Siamo tutti uguali fratello, potevo incazzarmi che mi hai detto che i miei carciofi alla romana sono pasticciati, ma non l’ho fatto. Però sorella, ti ho messo alla prova con il riso e non sai saputo riconoscere il tipo di riso che ho utilizzato, non ti stimo. Scusami, nessuna cattiveria, ma io dico quello che penso”. E se al posto dei due critici ci fossero stati Cracco o Alaimo avrebbe detto “Fratelli, scusatemi, siete due coglioni e non capite nulla di cucina italiana ma nulla di personale, io quando penso una cosa la dico, siamo tutti uguali”.
Morale della favola? Dopo aver tuonato che nessuno si era mai lamentato dei suoi carciofi alla romana (pessimi, per la verità, al di là del fatto che non fossero fatti alla romana), quando gli abbiamo chiesto informazioni sulla sua storia professionale ci ha detto che lui sa bene come si vive nei grandi ristoranti perché un suo zio fa il cuoco a Sousse. Si si, avete capito bene, a Sousse: località turistica della Tunisia, ma di per sé non certo una referenza (come dire ‘So cucinare perché mio zio fa il cuoco a Riccione’). Dunque fratelli e sorelle, piccolo consiglio: non osate mai criticare uno chef che non ha studiato e che proviene da un paese dove spesso si mettono insieme colazione, pranzo e cena insieme. Lui sa. Come, non è dato sapere. Nel frattempo il patron si fa coccolare dalla ex cameriera bulgara, mentre rimane irrisolto il mistero dell’esistenza di ristoranti da 70 euro a persona dove si mangia peggio che a casa. La morale: meglio un pacchetto di patatine davanti a Torino-Milan. Life is now.