Campioni senza finale

29 Dicembre 2006 di Roberto Gotta

Giorni di calcoli ed elucubrazioni per la NFL, che domenica 31 gioca l’ultimo turno, ma è inutile avventurarsi ad illustrare le possibili combinazioni di playoff – sono 20 su 32 le squadre che sono entrate o possono ancora sperare di entrarci e dunque vincere il Super Bowl, l’ennesima lezione di una lega americana al nostro ridicolo mondo sportivo – che possono sorgere, verificabili in un qualsiasi sito web statunitense o su www.nfl.com, per fare ancora prima. E poi invece di martoriarsi così basta attendere due giorni e vedere chi è entrato e chi no, non muore nessuno ad aspettare. Buttiamoci invece sul football universitario, che ad esempio qui in Italia con canali ‘normali’ non si vede in Tv. La scelta delle televisioni nostrane è comprensibile, a meno che non si sia fanatici accecati dal monoteismo: se già Sky, che avrebbe uomini di lusso come commentatori, non manda in onda il basket NCAA, dove le partite sono quasi sempre più divertenti e varie di quelle NBA (anche se a livello decisamente più basso) e si possono vedere da ‘ragazzini’ giocatori che poi faranno la loro figura nella NBA stessa, figuriamoci per il football, che è sostanzialmente – ahimé – meno seguito del basket e dunque ancor più di nicchia. Per il football è tempo di bowl, che a volte vengono resi in italiano come ‘finali’, e anche qui nessun biasimo, perché non è facilissimo capire che cosa siano, per la nostra mentalità. Necessario partire da lontanissimo, per provarci. Ovvero, partire dalla ben nota considerazione sul fatto che lo sport di base in USA è quello scolastico, nei vari gradi di istruzione e con l’elite rappresentata dalla high school (liceo, scuola superiore insomma) e sul gradino più alto dal college, l’università. E’ questo il ritratto vero dello sport americano, molto più delle leghe professionistiche: un abitante di Glasgow, nel Montana, è a non meno di 14 ore di auto dalla più vicina città che ospiti una squadra pro di una delle grandi leghe (NFL, NBA, MLB, NHL), e per vedere sport non può fare altro che cercare vicino a casa, il locale liceo, magari una macchinata a vedere Montana o Montana State, ed è intorno ai licei e – ove ci siano – alle università che si crea la comunità di interessi e passioni che viene normalmente associata, in Italia, al locale club di calcio o basket o rugby o pallavolo. Per cui un passo importante è capire che quel che da noi è dato a Torino – per fare un esempio – dalla Juventus, dal Torino e a Treviso dalle varie incarnazioni della Benetton o dal Treviso calcio negli USA è rappresentato invece dallo sport amatoriale, perlomeno di facciata, ovvero quello liceale o di college. Lo sport pro, per il medesimo concetto di franchigia che teoricamente può cambiare di sede di punto in bianco, è un sovrappiù, un elemento ulteriore, che in alcuni casi mette radici così profonde da assomigliare ad un’istituzione locale come un’università – impensabili ad esempio i Packers se non a Green Bay, o i Celtics altrove che non sia Boston – ma che di norma viene visto come un’entità che agisce su un piano completamente diverso rispetto a quello del college del luogo, che non per nulla ottiene una cospicua parte delle proprie entrate da donazioni, lasciti, raccolte di fondi ed elargizioni benefiche di ex studenti che dimostrano così il loro affetto e legame con chi li ha allevati. A parte gli inizi, con poche squadre, una volta che il football prese piede ovunque, specialmente nel sud che ancora detiene il primato virtuale della passione, risultò impossibile il concetto di un ‘campionato’ nel senso stretto della parola: per la difficoltà dei viaggi e per il fatto che quando hai anche ‘solo’ 80 squadre da organizzare è un po’ improbabile che tu riesca a farle incrociare come in un normale torneo. Del resto nessuno appunto ci pensava, in quell’epoca di sport regionalizzato. Squadre di un medesimo ambito geografico che giocavano tra di loro presto misero in piedi delle strutture coordinate e coordinanti come le conference, e alla fine giunsero a stabilire accordi incrociati per mandare ognuna la propria squadra campione ai bowl, che altro non erano che sfide messe in piedi in luoghi solitamente ameni da organizzatori scaltri per suggellare una stagione. Non erano finali – a parte il fatto che l’uso della parola è spesso improprio: si legge a volte che per esempio New England e Saint Louis hanno giocato ‘la finale del Super Bowl’ , ma è una cretinata, è il Super Bowl che è una finale, del campionato NFL -, ma una sorta di passerelle competitiva, nate da esigenze… turistiche. Si ricorda infatti che gli organizzatori del celebre Tournament of Roses, a Pasadena (California, in pratica Los Angeles nord), la sfilata di carri adornati da rose ed esibizione competitiva di fiori, un giorno del 1901 decisero di attirare più gente e turisti organizzando a margine della manifestazione una sfida di football. A inizio 1902 dicembre Fielding Yost, storico coach di Michigan, aveva sfidato California, che si reputava la migliore squadra d’America, e venutolo a sapere i saggi gestori del Tournament invitarono le due squadre a misurarsi a Pasadena nei giorni di fine anno, quelli della sfilata. California rifiutò, ma venne sostituita da Stanford che prese una discreta batosta, finendo sconfitta 49-0. Il margine di vittoria e la superiorità di UM furono così vistosi che gli organizzatori, pur soddisfatti dell’eco ricevuta e della presenza di pubblico, l’anno dopo preferirono non mettere in piedi un’altra sfida, timorosi di un ‘bagno’ di spettatori a causa della previsione di un’altra gara senza storia, ma la loro scelta di sostituire il football con corse di carrozze tirate da cavalli fu disastrosa, perché nel 1903 i driver erano dilettanti e non fecero altro che scontrarsi tra di loro, e l’anno dopo, con guidatori professionisti, emerse immediatamente il sospetto che alcune corse fossero truccate. Visto l’insuccesso della scelta successiva (corse di struzzi…), vai con il football, allora, dal 1916 però, con passaggio dal 1923 in un grande stadio chiamato Rose Bowl. Fu dunque lo stadio – bowl, lo ricordiamo, vuol dire scodella, tazza, ed identifica stadi ampi e di forma assimilabile a scodellone – a dare il nome alla partita, che per qualche anno fu giocata da squadre ad invito discrezionale del comitato, e poi prese per decenni l’aspetto di sfida di fine stagione tra la vincente della Big Ten Conference e quella della Pac 10. Visto il nome che il Rose Bowl si stava facendo, gli organizzatori del Palm Festival di Miami, anch’esso nei giorni di fine anno, decisero di mettere in piedi pure loro nel 1933 una partita di football, tra Miami e Manhattan, e per osmosi linguistica la chiamarono Orange Bowl, con ovvio riferimento agfli agrumi che della Florida costituiscono un prodotto classico. Il Palm Festival divenne l’Orange Bowl Festival dal 1935, con manifestazioni di contorno tra cui un celebre torneo di tennis giovanile, e l’esempio di Miami e Pasadena venne presto seguito da altre località, non casualmente situate in zone di clima temperato o caldo: facile per loro attirare i tifosi dei college impegnati nelle rispettive partite, che potevano abbinare la trasferta sportiva a qualche giorno di villeggiatura. E consuetudine di fine anno – o meglio inizio anno, perché la vera tradizione voleva i bowl tutti l’1 gennaio – dovuta al fatto che in quegli anni i mezzi di trasporto non erano rapidissimi e dunque tra la fine della ‘regular’ season dei college – primi di dicembre, al massimo – e il bowl ci volevano almeno tre settimane per permettere di organizzare il viaggio e soprattutto compierlo: la grande Alabama, con sei partecipazioni la più frequente ospite extra Pac 10 o Big Ten (ma tutte prima del 1946), arrivava in treno con un viaggio epico che per i giocatori costituiva già di per sé un’occasione enorme di vedere luoghi nuovi. Insomma, imita imita, poco alla volta ‘bowl’ vennero organizzati ovunque, arrivando anche secondo certe stime al numero di 100 (!), e ci fu persino nel 1937 un… Bacardi Bowl giocato a Cuba, a La Habana, tra Auburn e Villanova. Molti di questi bowl durarono una o due stagioni pe

r poi essere cancellati, ma altri sono rimasti nei decenni: l’Orange, il Rose, il Cotton (Dallas), il Sugar (New Orleans), l’Independence (Shreveport, Louisiana), l’Holiday (San Diego), il Sun (El Paso), il Peach (Atlanta, dove del resto tutto si chiama Peach), il Liberty (Memphis), il Gator (Jacksonville), il Fiesta (Temple, Arizona), che poco a poco scelsero di giocare in giorni diversi dall’1 gennaio per guadagnare spazi (televisivi) propri e una ribalta propria, da non condividere con nessuno. Ognuno di questi bowl aveva un contratto con una conference che vi mandava la sua squadra campione a sfidarne un’altra scelta a discrezione, e a scalare i bowl ‘minori’ (per dotazione economica, richiamo televisivo e influenza) potevano assicurarsi la presenza della seconda migliore squadra di una determinata conference e così a scalare, ma con moderazione, nel senso che per un lungo periodo il numero di bowl oscillò tra i 12 ed i 18 e questo significava dunque che al massimo 36 squadre sulle circa 120 di Division I potevano prendervi parte. Per cui nel consuntivo di una stagione dire che si era andati ad un bowl voleva significare comunque un’annata di successo. Però… Però va ricordato il sistema con il quale veniva ritualmente determinata la squadra campione di college, per la quale più che di NCAA Champions si parla di National Champions. Non essendo possibile far giocare tra di loro le squadre come succede nelle leghe pro, a fine anno la migliore di esse veniva determinata a tavolino, dal… voto di organizzazioni ed agenzie giornalistiche come la AP, la UPI, e l’associazione dei coach, Voto precarissimo: perché voleva dire capire, appunto a tavolino, se – esempio – Alabama che aveva vinto il Sugar Bowl 30-0 contro Notre Dame ma aveva chiuso con 11 vittorie ed una sconfitta fosse superiore ad UCLA che magari aveva vinto a malapena il Rose Bowl su Purdue ma aveva chiuso imbattuta la stagione. Come diavolo si poteva capire quale fosse la migliore delle due? Ed infatti è capitato che alla fine le numero 1 di AP, UPI e coach differissero, e il titolo di campione nazionale, del resto ufficioso, finisse a due squadre diverse. Rarissimamente capitava che per un caso in un bowl si scontrassero quelle che all’unanimità erano considerate le due migliori squadre di college, ed in quel caso (vedi 1987, memorabile Fiesta Bowl tra Penn State e Miami) non vi erano dubbi sui meriti della vincitrice. Ma proprio per la rarità di queste situazioni – solo otto volte tra il 1936 e il 1992 le numero 1 e 2 del ranking si sono affrontate in un bowl – nel 1992 si decise di istituire la cosiddetta Bowl Coalition, che cercava di riorganizzare la partecipazione ad alcuni bowl per creare una maggiore probabilità di sfide tra numero 1 e numero 2 allentando i legami tra singoli bowl e conference, ma aveva il grave difetto di non contare tra le conference aderenti la Pac 10 e la Big Ten, che continuavano a tenersi strette il loro Rose Bowl. Dal 1995 si passò alla Bowl Alliance, che rappresentò un ulteriore passo avanti (?) nella combinazione tra bowl e squadre migliori e ad esempio nel gennaio del 1996 portò al Fiesta Bowl le prime due, Nebraska e Florida, che fino a pochi anni prima avrebbero dovuto per contratto giocare una al Cotton Bowl (Nebraska) e l’altra al Sugar (Florida). Ora, dal 1997, esiste la Bowl Championship Series, di cui finalmente fanno parte Rose Bowl, Pac 10 e Big Ten. Il criterio è questo: a rotazione, Rose Bowl, Orange Bowl, Fiesta Bowl e Sugar Bowl avrebbero ospitato ogni anno le due migliori del ranking – calcolato mescolando un’infinità di elementi, compresa ancora la valutazione di giornalisti e coach, ma spesso fonte di polemiche – in una vera finale, ma con il rispetto dei precedenti elementi di tradizione ove questo non fosse possibile. Ovvero, se nessuna squadra della Big Ten o della Pac 10 – tra le due migliori, il Rose Bowl se lo giocano tra di loro, così come resta il legame tra campione della SEC e Sugar Bowl, della Big 12 e Fiesta Bowl, della ACC o Big East e l’Orange Bowl, cui possono mancare solo se impegnate nel bowl (non ne possiamo più di scrivere questa parola!) che determina la squadra campione, anche se nel 2004 ad esempio Louisiana State vinse il titolo BCS ma Southern California venne ritenuta campione dalla AP dopo un travolgente Rose Bowl. Dal 2006 il BCS ha un elemento ulteriore: i quattro bowl di maggior grado (Sugar, Orange, Fiesta, Rose) restano, ma dopo di loro si gioca in uno dei quattro stadi il BCS National Championship Game, ciò che di più vicino ad un Super Bowl può esserci per la NCAA. Pur se criticato da molti tradizionalisti e da chi non vede chiaro nei ranking elaborati, il nuovo sistema lo scorso anno ha avuto un successo strepitoso: al Rose Bowl si sfidarono certamente le due migliori squadre, i campioni in carica di Southern California guidati da Reggie Bush e Matt Leinart e Texas del Qb Vince Young, e vinse Texas 41-38 in una partita di una bellezza quasi commovente. Stavolta tocca ad Ohio State e Florida, anche qui con premesse controverse perché a lungo si è ritenuto che fosse in realtà Michigan la seconda miglior squadra NCAA, ma i Wolverines hanno perso contro Ohio State e sono oltretutto nella stessa conference, per cui era improponibile una rivincita nel BCS National Championship. Si gioca a Glendale, Arizona, nello stesso stadio dei Cardinals della NFL, lunedì 8 gennaio (altro che i celebri New Year’s Day Bowls di un tempo, che permettevano splendide giornate di football televisivo da mezzogiorno a mezzanotte, con telefono staccato e frittatona di cipolle), alle ore 20 della costa est, e peccato che qui non si possa vedere, per canali normali. Ah, dimenticavamo: la squadra perdente porterà comunque a casa almeno 14 milioni di dollari tra diritti televisivi e gettone di presenza. Il che aiuta molto a capire come si sia arrivati alla creazione della BCS e del suo National Championship Game, vero?

chacmool@iol.it

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