Bobby Robson – More than a manager

1 Agosto 2020 di Stefano Olivari

Bobby Robson – More than a manager, ci ha fatto piangere. Non tanto per la storia, pur emozionante, dell’allenatore della nazionale inglese (dal 1982 al 1990) e di tante altre squadre, con un posto speciale per l’Ipswich Town anche se il cuore era per il Newcastle. Ma per ciò che ha lasciato in tutti quelli che hanno lavorato per lui: raramente abbiamo sentito Mourinho e Guardiola, strapresenti nel documentario, essere così d’accordo su qualcosa e su qualcuno.

La chiave di Bobby Robson – More than a manager, appena visto su Netflix, è tutta qui: non una storia di grandi innovazioni tattiche o piena di aneddoti clamorosi, ma di un rispetto guadagnato sul campo senza bisogno di esibire una pur clamorosa bacheca di trofei vinti in mezza Europa: c’è comunque chi ha vinto molto di più e non ha lasciato niente. Da sottolineare, il documentario fa solo qualche accenno ed è un errore, che Robson era stato anche un ottimo centrocampista, presente in due Mondiali (ma giocante solo nel 1958) con l’Inghilterra di Winterbottom.

“Giocavamo per lui – dice Guardiola, che l’ha avuto un anno al Barcellona -, era il tipo di allenatore che ti porta a giocare per lui. Al punto che quando andò al Newcastle io gli proposi di farmi un’offerta: per lui ero pronto a lasciare il Barcellona”. Suo assistente ed interprete al Barcellona, ma prima ancora allo Sporting Lisbona e al Porto fu Mourinho, che a distanza di decenni conserva per Robson una devozione assoluta: “Mai visto un allenatore resistere così bene alla pressione e guadagnarsi la stima di tutti, per me non è morto. Si muore quando muore l’ultima persona che ti ha amato”.

Fra chi lo ha amato senz’altro la moglie Elsie, presente con molti interventi, una moglie cosciente fin dall’inizio di avere sposato un uomo ossessionato dal calcio (così era Robson, al di là delle apparenze) e in casa quasi sempre assente, come ricordato dai figli, che nelle sostanza sono stati più suoi ammiratori che suoi figli.

Dal punto di vista stilistico i salti cronologici avanti e indietro aumentano la vivacità di una storia di cui tanti appassionati di calcio pensano di sapere tutto. Nel film di Gabriel Clarke e Torquil Jones, girato nel 2018, eccellente la parte sul Barcellona, nell’anno di Ronaldo (presente nel film), ma ben fatta anche quella sui Mondiali 1986 e 1990. Per Robson due enormi ferite, la prima ricordata con rabbia (e Maradona definito testualmente ‘rascal’, mascalzone) e la seconda con il dolore di chi ha visto tanto calcio e sa che con la Germania si può perdere anche giocando meglio.

A proposito di Italia ’90, nemmeno le persone più aride possono rimanere insensibili a tante immagini di cazzeggio giovanile nel ritiro dell’Inghilterra e a ciò che Paul Gascoigne è oggi, dimostrando 30 anni più della sua età anagrafica. Robson era per Gascoigne una figura paterna, in ogni senso, alternando carezze a durezza. L’unico che lo ha saputo prendere, come ha ricordato lo stesso Gazza, fino agli ultimi suoi giorni di vita cercato al telefono da Robson, che pur distrutto dal cancro, quasi 15 anni di lotta, provava con discrezione a fare qualcosa per lui.

Quando in sedia a rotelle, prima di una partita per beneficenza a pochi giorni dalla morte avvenuta a 76 anni, Robson si rivolge a un quarantaduenne Gascoigne non gli fa la morale ma solo una richiesta: “Gioca bene, Gazza”. Gazza piange e noi con lui.

Share this article