Belgio, l’oro che manca al calcio

7 Agosto 2021 di Alec Cordolcini

Campioni di niente, campioni di tutto. Il Belgio che in questi anni non è riuscito a scrivere la storia nel calcio, quantomeno la storia che si fa con almanacchi e albi d’oro, lo ha fatto a Tokyo con l’hockey su prato. A raddrizzare un’estate iniziata male con il deludente Europeo dei Diavoli Rossi ci hanno pensato i Red Lions vincendo l’oro olimpico dopo aver sconfitto in finale ai rigori l’Australia, squadra numero due del ranking mondiale (al primo posto ci sono proprio i belgi). Il Belgio ha così completato una serie unica nella storia dell’hockey su prato, visto che nel triennio 2018-2020 si è laureato campione d’Europa, campione del mondo, ha conquistato l’oro olimpico e detiene anche il titolo della FIH Pro League, il torneo internazionale valevole per le qualificazioni al Mondiale e alle Olimpiadi. Giovedì 5 agosto 2020 è stata una giornata storica per tutto lo sport belga, perché poche ore dopo la vittoria dei Red Lions è arrivato l’oro nell’eptathlon di Nafissatou Thiam, che ha portato a tre le medaglie d’oro per il paese di Re Filippo. Un numero che mancava da Parigi 1924.

Vent’anni fa la nazionale belga di hockey veniva ritenuta inadatta dai vicini di casa dell’Olanda anche per una semplice partita di allenamento. Troppo basso e, di conseguenza, poco allenante il livello dei Red Lions, che per tutta la prima decade del nuovo millennio erano un inno all’anonimato. Una sola partecipazione al Mondiale dal 1998 al 2014, e un ritorno alle Olimpiadi nel 2008 dopo un’assenza di 32 anni. Due sono stati gli eventi che hanno fatto scoccare la scintilla per scrivere una storia di cui nemmeno il più grande sognatore avrebbe potuto immaginare un epilogo così felice. Nel 2007 è arrivato il terzo posto agli Europei in Inghilterra, per un’esperienza che mischiava soddisfazione e frustrazione. La prima riguardava ovviamente il risultato raggiunto, ottenuto però attraverso un percorso tortuoso e sfibrante nel quale si era faticato a trovare 18 nazionali da portare alla fase finale del torneo. Molti atleti non riuscivano più a conciliare il lavoro, la famiglia e un’attività sportiva che era quasi solamente passione, e quindi gettavano la spugna. L’exploit inglese ha però avuto il merito di inserire con decisione  l’hockey su prato nel programma BeGold, sviluppato a livello istituzionale sull’intero territorio dalle tre comunità del paese (francofona, fiamminga e germanofona), con la collaborazione del Comitato Olimpico nazionale, e finalizzato alla professionalizzazione delle strutture, e delle figure, sportive del Belgio.

In quindici anni, il budget della Federazione belga di hockey è cresciuto da 650mila a 2milioni di euro, forte di un circolo virtuoso che ha visto crescere tesserati (da 16.000 a 53.000), società e sponsor. Un’iniezione di denaro che da un lato ha permesso a federazione e club di garantire un salario ai propri atleti che gli garantisse quantomeno uno status da semi-professionisti, evitando il fenomeno della dispersione e dell’abbandono precoce, e dall’altro ha creato un nuovo sistema di competenze, ingaggiando allenatori e preparatori provenienti da paesi con una consolidata tradizione hockeistica. Come il neozelandese Shane McLeod, l’attuale tecnico dei Red Lions, che lascerà la squadra al termine del torneo olimpico. Spesso i movimenti caratterizzati da una crescita prepotente e impetuosa si bloccano quando arriva il momento di salire l’ultimo gradino, vedi il caso del Belgio calcistico, che ha dovuto sostituire un elemento chiave nel proprio processo di rinascita come Marc Wilmots per ottenere un piazzamento importante (il terzo posto al Mondiale 2018), ma nemmeno un tecnico più preparato e di maggior respiro internazionale come Roberto Martinez è riuscito a fornire la spinta decisiva per centrare il bersaglio grosso. McLeod è stato l’uomo giusto al momento giusto, specialmente nell’assemblare tre generazioni di atleti, molti dei quali di grande talento, in una compagine tatticamente matura e mentalmente solida. Il mix di stili è stata l’arma vincente del Belgio, abile nel sintetizzare le caratteristiche principali delle diverse scuole di hockey, rielaborandole in chiave personale. Nei Red Lions si sono viste la fisicità e la potenza che caratterizza lo stile di nazionali come l’Australia, unite all’approccio difensivo, alternato a rapide azioni di rimessa, tipico delle compagini europee, senza dimenticare il gioco tecnico e aperto alle soluzioni individuali adottato dalle nazionali asiatiche.

Mai tanti talenti tutti assieme nel Belgio. Quante volte è stata pronunciata questa frase mentre si parlava di Kevin De Bruyne, Eden Hazard, Romelu Lukaku e Thibaut Courtois? Per l’hockey il discorso è identico. Tre delle ultime quattro edizioni del FIH Player of the Year hanno visto l’affermazione di giocatori belgi. Nel 2016 ruppe il ghiaccio John-John Dohmen, che si vide affiancare dal connazionale Arthur Van Dooren quale miglior giovane giocatore al mondo. Nei due anni successivi lo stesso Van Dooren ha vinto il premio principale, mancando il tris nel 2019, dove si è dovuto accontentare solo dell’inserimento tra i sei candidati finali, mentre nel 2020 il riconoscimento non è stato assegnato a causa della sospensione dei tornei per la pandemia.

Il Lukaku dell’hockey belga è invece un difensore, Alexander Hendrickx, classe ’93 proprio come l’ormai ex interista, capace di laurearsi capocannoniere (talvolta in coabitazione, altre volte in solitaria) in tutti i tornei vinti dai Red Lions: 7 gol al Mondiale 2018, 5 all’Europeo 2019, 11 nella FIH Pro League 2020, 14 alle Olimpiadi. Hendrickx è uno specialista nel tiro di angolo corto (o corner corto), una punizione che viene assegnata per un fallo involontario commesso da un difensore all’interno dell’area di tiro (in caso contrario, ovvero in presenza di volontarietà, sarebbe calcio di rigore). Ai Giochi di Rio 2016, quando il Belgio giunse per la prima volta nella sua storia in finale, perdendo contro l’Argentina, vantava la peggior percentuale di realizzazione da corner corto dell’intero torneo. Peggio anche del Brasile, che nell’hockey su prato è paragonabile a Cipro nel calcio. Hendrickx ha toppato la falla.

Infine il portiere Vincent Vanasch, uomo partita nella finale olimpica grazie ai due rigori parati, da tre edizioni consecutive miglior estremo difensore del mondo. A 22 anni Vanasch voleva lasciare l’hockey per mancanza di prospettive e di considerazione, tanto da ricordare che durante una delle sue prime convocazioni in nazionale diversi compagni non nascosero il proprio disappunto per averlo nello spogliatoio, in quanto non lo ritenevano all’altezza del livello richiesto. Fosse nato dieci anni prima, sarebbe stato uno dei tanti potenziali talenti persi nei meandri, a tratti insostenibili, del dilettantismo.

Il primo alloro del Belgio è arrivato nel 2018 in India con la vittoria del Mondiale. In finale i Red Lions sconfissero l’Olanda ai calci di rigore, in un match dal forte valore simbolico. L’Olanda è per tradizione il vicino scomodo dei belgi, quello con cui bisticciare su qualsiasi argomento senza però mai smettere di osservarlo, studiarlo e prendere spunto. Nell’hockey, come nel calcio, gli olandesi hanno scritto la storia ben prima dei belgi, con la differenza che nel primo caso gli “allievi” (virgolettato d’obbligo) sono riusciti a superare i maestri. L’Olanda possiede una solida tradizione nel campo dell’hockey fin da quando, nel 1973, conquistò in casa un clamoroso titolo mondiale superando in finale l’India, che all’epoca era come battere il Brasile di Pelè. In seguito gli Oranje hanno vinto altri due mondiali e cinque medaglie olimpiche: due ori, due argenti e un bronzo. Quando nel 2005 l’ex nazionale belga Marc Coudron lasciò l’attività agonistica e fu eletto presidente della Federhockey locale la sua prima mossa fu individuare uno specialista olandese con il quale condividere il proprio progetto di professionalizzazione e modernizzazione dell’hockey in Belgio. La scelta cadde su Bert Wentink, professore di educazione fisica all’Università di Tilburg nonché allenatore di successo sia a livello di club sia di nazionale (quella olandese femminile, nel suo caso). La citata finale del mondiale indiano ha rappresentato contemporaneamente la chiusura di un cerchio e l’inizio di un ciclo.

Un giorno, durante le Olimpiadi a Rio, nello spogliatoio McLeod parlò alla squadra della moglie, una cardiologa belga. Mentre era di turno in ospedale durante una partita dei Red Lions, a un certo punto diversi monitor nel reparto cominciarono a lampeggiare, segnalando un’attività cardiaca anomala in molti pazienti. Il Belgio aveva appena segnato. Era la capacità dello sport, raccontò McLeod ai suoi giocatori, di regalare emozioni e momenti di sollievo anche alle persone più in difficoltà. Al di là delle competenze professionali, la capacità di questo tecnico di creare un gruppo anche attraverso discorsi che esulano dall’ambito puramente sportivo ha rappresentato un elemento importante in questa tipica storia di successo che le Olimpiadi amano sfornare. La stampa non ha mancato di stuzzicare McLeod mettendo il suo sport a confronto con il calcio, specialmente a livello economico. Nel 2018 il quotidiano Het Nieuwsblad ha calcolato che il terzo posto al mondiale russo abbia permesso ai Diavoli Rossi di guadagnare 138 volte più di quanto introitato dai Red Lions per la vittoria della coppa del mondo. McLeod però, signorilmente, ha sempre glissato, limitandosi a un “mi piacerebbe che i giocatori di hockey guadagnassero un po’ di più”. Campione di tutto, anche di stile.

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