Rizzoli, la leggenda del Cumenda e di un’altra Italia

1 Marzo 2015 di Stefano Olivari

Vite come quelle di Angelo Rizzoli dovrebbero essere raccontate nelle scuole, sarebbero senz’altro più utili alla vita futura dei ragazzi di quelle di un poeta di corte o di un generale assassino. Un piccolo contributo potrebbe darlo la lettura di Rizzoli – La vera storia di una grande famiglia italiana, scritto dai nipoti Nicola Carraro e Alberto Rizzoli per un editore che si chiama… Mondadori (!). Anche se la fusione, in pratica l’acquisto di Rizzoli da parte di Mondadori, proposta da Marina Berlusconi è tutt’altro che improbabile…

Partito dal niente, orfano ancora prima di nascere e poverissimo, ebbe l’occasione del riscatto con i Martinitt (l’istituto di assistenza nato nel sedicesimo secolo e arrivato, attraverso vari cambi di sede e di finanziatori, fino ai giorni nostri) e lì appreso il mestiere di tipografo si buttò appena maggiorenne in un’avventura imprenditoriale che lo avrebbe portato a lasciare un segno sulla cultura popolare italiana e a raggiungere una ricchezza spropositata, allargando il suo campo d’azione anche all’immobiliare (Ischia meta turistica l’ha creata lui) e alla produzione cinematografica (tanti film, da La Dolce Vita in giù). Ricordato spesso come la macchietta dell’imprenditore milanese, una specie di Zampetti dei suoi tempi, con tanto di aneddoti di quattordicesima mano, era ovviamente un uomo intelligentissimo e con grandi intuizioni, capace di mettere insieme collaboratori di valore e con una sensibilità speciale per ciò che funzionava sul mercato. In cuor suo disprezzava gli editori intellettuali e li prendeva in giro con frasi come “Quel Tolstoj lì sarebbe poi il Dostoevskij” che erano autoironiche, ma che anche prese nel modo sbagliato contribuivano al suo mito.

Il libro ha una struttura molto interessante, di tipo epistolare. In pratica Nik (Nicola, figlio di Pinuccia a sua volta figlia del capostipite) scrive una lettera al quasi coetaneo cugino Albert (Alberto, figlio di Andrea a sua volta figlio del Cumenda, che in realtà in famiglia era chiamato Commenda), che gli risponde inducendolo a  scrivere un’altra lettera e così via. Ne viene fuori un affresco che in pratica è in ogni riga la storia di Angelo Rizzoli, perché la sua figura è onnipresente in ogni decisione di lavoro e privata dei singoli. A volte si segue un ordine cronologico, più spesso si va per associazione di idee ed episodi o per flusso di coscienza, rendendo la lettura interessante anche a chi i fatti narrati già in gran parte li conosce. In particolare è efficace la descrizione del rapporto fra Angelo Rizzoli e il figlio maschio, a volte umiliato dal genio del padre ma al contrario di altri eredi capace di non farsi schiacciare e di ritagliarsi un suo spazio anche fuori dall’azienda (fu il presidente della prima Coppa Campioni del Milan, nel 1963).

È una storia chiaramente di parte, con i suoi buoni e i suoi ‘cattivi’: fra questi ultimi Angelo, detto Angelone, Rizzoli, fratello di Alberto e cugino di Nicola, a cui vengono riservate notazioni un po’ acide sul piano personale ed aziendale. In sostanza gli vengono addossate gran parte delle colpe (in solido con il padre Andrea) per la scellerata, con il senno di poi, scelta di acquistare negli anni Settanta un indebitato Corriere della Sera che era nelle mani dei Moratti, dei Crespi e degli Agnelli (in quelle degli Agnelli sarebbe poi tornato, gratis). Angelo Rizzoli junior, morto un paio di anni fa e che nella prospettiva di Indiscreto è soprattutto il marito di Eleonora Giorgi prima che lei si mettesse con Ciavarro (Erano gli anni di “Pizza fredda e birra calda”), non può più fornire la sua versione, ma è certo è che la fine della Rizzoli dei Rizzoli non sia avvenuta con la morte del Commenda, a 81 anni nel 1970, ma con l’operazione Corriere della Sera e l’entrata nel mondo P2-Calvi-Tassan Din.

In mezzo a tante storie personali Carraro e Rizzoli sono molto bravi nel descrivere la Milano imprenditoriale degli anni Cinquanta e Sessanta, quella dove gli stabilimenti erano in città (adesso nemmeno gli uffici) e dove anche i ‘giovin signori’ come Nicola e Alberto erano trattati con affettuosa durezza da chi aveva costruito l’azienda. Un mondo perduto e da non mitizzare, ma senz’altro preferibile al Qatar.

Share this article