Amici di Franco Rossi

2 Dicembre 2018 di Indiscreto

Ci sono molti modi di interpretare la regola del do ut des. Quello di Franco era scientifico, ma non è mai stato chiaro se l’utilizzo di questa filosofia di vita fosse dettato da una vera e propria coscienza oppure da qualcosa di derivante dal profondo. Il vero problema è che il suo do ut des finiva per essere dolcemente coercitivo. Era quasi impossibile dirgli di no e deludere le sue aspettative, anche perché in maniera garbata ma spiazzante ti faceva venire in mente un ‘do’ passato che rendeva necessario un ‘des’ immediato. Non è un caso che Franco Rossi sia sempre stato bianco o nero, dolce o salato, paradiso o inferno. Le persone lo adoravano o lo detestavano, ma era impossibile rimanere in una terra di mezzo. Numerosissimi i casi di persone che dopo il primo quarto d’ora di conoscenza l’avrebbero ammazzato sul posto e un mese dopo l’avevano eletto idolo assoluto.

Per lui l’amicizia era tutto. Non avendo avuto una famiglia, popolava la sua vita di persone che potessero rappresentare un surrogato credibile del mondo familiare. Forse per dare una lettura ancora più approfondita di questo concetto è utile risalire alle origini, a quel magma di emozioni che aveva formato una personalità così complessa e affascinante. Franco risultava nato a Firenze, figlio di Olga Rossi e di padre ignoto. La data di nascita, 25 settembre 1944, ha un significato importante: in piena seconda guerra mondiale. La signora Olga dopo essere diventata madre del piccolo Franco si innamorò di mister Freeman, soldato americano, con il quale ben presto si trasferì a Detroit per formare una nuova famiglia. Franco venne lasciato in affidamento ai nonni e poi depositato in un collegio cattolico sito nel paese di Tavernelle, provincia di Perugia, praticamente un orfanotrofio, con tanto di abusi da parte di alcuni ministri di Dio. Per le vacanze di Natale era l’unico a rimanere nelle tristi e fredde stanze dell’istituto, solo come un cane, mentre gli altri comunque avevano qualche parente che andava a prenderli.

Molti anni più tardi Franco avrebbe avuto modo di rivedere in maniera molto romanzesca sia la madre sia il padre. Un giorno prese l’aereo e andò a Detroit, per scoprire che faccia avesse mamma Olga. L’esperienza fu segnante ai massimi livelli. La signora, che per Franco era un’illustre sconosciuta, mostrò con orgoglio la sua nuova famiglia, il marito (di origine afroamericana) e i figli. Franco raccontò di aver ballato con una delle sorelle, accorgendosi a un certo punto di avere un principio di erezione. C’era qualcosa che non andava in tutto questo. Da quel viaggio tornò turbato, a dir poco. Sulla sua agenda aveva il numero di telefono della mamma sotto la dicitura Olga Freeman, ma non ha mai composto quel numero. Non voleva più saperne della madre, che nel profondo del suo cuore odiava. E un giorno l’ha anche confessato: “In quel viaggio a Detroit ho capito cosa mi aveva tolto quella donna”. Il calore di una famiglia, la possibilità di dare una sede ai propri affetti. Mai più. Un giorno però a Milano comparve Randy, uno dei fratellastri. Un gigante nero oltre il metro e novanta. Si presentò a Milano sotto casa di Franco, ai tempi in via Cucchiari, e chiese in italiano stentato alla portinaia se potesse citofonare al signor Rossi. La portinaia gli chiese chi fosse e ascoltando la parola “fratello” cominciò a spaventarsi. Voleva chiamare la polizia, mentre il povero Randy cercava di tranquillizzarla. Alla fine Franco, richiamato dagli schiamazzi, scese e disse alla portinaia che sì, quello era proprio suo fratello. Erano gli anni Ottanta e non capitava tutti i giorni di vedere un soggetto come Randy in giro per Milano. Oggi forse sarebbe tutto più normale.

Poi c’è la leggenda del padre. Una sera, una delle tante sere trascorse nei peggiori bar di Milano, Franco conobbe tale Antonio Stramaccioni, che gli iniziò a raccontare la storia della sua vita. Tra i due si stabilì un rapporto di empatia che andava al di là di qualsiasi barriera. Stramaccioni raccontò delle sue origini umbre e di aver avuto un figlio da una relazione con una ragazza di Firenze, durante la guerra, ma di avere poi perso completamente le tracce di quel figlio. Le date coincidevano clamorosamente, ma Franco non ebbe il coraggio di uscire allo scoperto subito. Lo fece qualche sera dopo, raccontando allo Stramaccioni la sua triste storia. Da quel momento, senza ricorrere ad alcun test scientifico, Franco decise che quello era suo padre e come tale lo trattò. Il rapporto tra i due divenne intensissimo, come se ci fosse la necessità di rivivere insieme quello che non era successo nei trent’anni precedenti. Così rimase fino alla morte di Stramaccioni, che per la storia e per il cuore era ed è il padre di Franco Rossi.

La terza premessa per arrivare a una conclusione sul significato di amicizia riguarda un matrimonio dai contorni parecchio incerti. Franco diceva di aver sposato, non si sa bene quando, una ragazza serba a Glasgow (di racconto in racconto trasformatasi in Edimburgo) con rito anglicano (o celtico, secondo un’altra versione fornita dallo stesso Franco). Matrimonio durato poco dal punto di vista della convivenza, mai cancellato però da una presunta anagrafe scozzese alla quale sarebbe stato registrato, quindi valido a tutti gli effetti fino alla sua morte. Un giorno, mentre era in auto con l’amico e collega Roberto Omini, chiese di accostare dicendo che aveva visto sua moglie tra via Carducci e via Terraggio, a Milano, sparendo nel giro di pochi secondi per ricomparire da chissà dove solo qualche ora dopo.

Inquadrati il personaggio e la sua famiglia, è facile immaginare quanto fosse importante per Franco il concetto di amicizia. Per un vero amico si sarebbe sottoposto a qualsiasi tortura e avrebbe sopportato qualunque fatica, ma poi bisognava avere pazienza quando era lui ad avere bisogno di qualcosa. La tipica chiamata era alle due e mezza di notte. Negli anni Ottanta non esistevano ancora i telefonini, c’erano i telefoni fissi e le suonerie erano sempre abbastanza invasive. Franco, troppo abituato a vivere quasi completamente in solitudine e senza telefono in casa, chiamava a quelle ore anticostituzionali. Normalmente la frase era: “Scusa il disturbo, ma sono in un bar e non ci sono più mezzi pubblici, non ho i soldi per il taxi e ho bisogno di tornare a casa”. Capitava, spesso. Capitava e non gli si poteva dire di no. Il tempo di infilarsi il primo indumento a portata di mano, prendere le chiavi della macchina e andare a portarlo in via Cucchiari. Magari passando prima per l’edicola di piazza Baiamonti, dove si potevano trovare le prime edizioni dei giornali del giorno dopo.

La scena madre era quella della vigilia di Natale. Memore forse dei tanti Natali trascorsi nel collegio di Tavernelle, si rendeva conto della tristezza di quel momento. Verso l’ora di pranzo alzava il telefono e componeva il numero di uno di quelli che non sapevano dirgli di no, di solito Fabio Monti del Corriere della Sera. “Sto morendo, ti prego, vieni a prendermi”. Non si capiva bene quale fosse il malessere, ma il malcapitato destinatario della telefonata portava Franco al pronto soccorso cercando di tranquillizzarlo, tirando poi qualche imprecazione quando vedeva il medesimo Franco accucciato in un angolo che fumava la sua sigaretta con assoluta disinvoltura. Succedeva più o meno ogni 24 dicembre e ogni volta chi veniva prescelto per questa funzione diceva tra se e se “mai più”, salvo poi ricascarci dodici mesi dopo.

Amici giornalisti ne aveva parecchi, anche perché quando si metteva d’impegno emanava quel fascino trasgressivo al quale era difficile resistere e comunque perché di un amico parlava sempre bene, difendendolo anche quando commetteva degli errori e anche quando non era presente. Ma aveva molti amici anche nelle categorie più impensate, frutto della frequentazione del bar vicino a casa, bar dove aveva stabilito un rapporto con centinaia di persone dall’estrazione molto diversa. Medici e operai, professori e nullafacenti, impiegati di banca e artisti maledetti. Era una calamita capace di attirare personalità differenti ma con in comune quel tocco di originalità che non poteva mancare per poter rendere duraturo un rapporto con lui.

In questa categoria rientra sicuramente l’amicizia con Paolo Mantovani, storico presidente della Sampdoria campione d’Italia 1990-91. Tra loro il rapporto era veramente straordinario. Non si è mai capito cosa avesse fatto scoccare la scintilla, però Mantovani stravedeva per Franco, gli avrebbe dato una notizia di mercato anche a costo di attraversare a nuoto un braccio di mare. Un giorno lo chiamò dalle Bermuda o da qualche arcipelago simile per dirgli che il Milan aveva dato Catello Cimmino in prestito al Como. Raccontata così, sembra quasi che il presidente deviasse su altre squadre la sua amicizia, magari per nascondere tutto ciò che riguardava la Sampdoria. Invece no. Anche tutto quello che era blucerchiato diventava patrimonio di Franco e del giornale per cui lavorava, prima Tuttosport e poi il Corriere dello Sport, in parte e in seguito anche il Giorno, dove però Franco era caporedattore e non faceva più il cronista. Solo che Mantovani si divertiva a fare dei giochini ai quali Franco sottostava con grande godimento. Un giorno lo chiamò da un posto non precisato e gli disse: “Buongiorno Rossi. Ho venduto un giocatore con il nome di sei lettere, che gioca in un ruolo di sei lettere, a una squadra di sei lettere”. Non fu particolarmente complicato risolvere il quiz. Mezz’ora di consultazioni nella piccolissima redazione (quattro persone) del Corriere dello Sport-Stadio, poi ecco la soluzione: Renica. Libero. Napoli. Ed ecco una notizia in esclusiva sul Corsport del giorno dopo.

Estratto del capitolo ‘Amici  di Franco Rossi’ contenuto nel libro ‘A cena con Franco Rossi – Storia e Storie di un giornalista sportivo’ (editore Indiscreto), di Stefano Olivari ed Enzo Palladini. Il libro è in vendita in formato elettronico per Amazon Kindle a 6,99 euro e in versione cartacea a 14,90 euro (prezzi indicativi, ogni rivenditore ha una sua politica di sconti) presso Amazon, la Libreria Internazionale Hoepli e tutte le altre librerie che lo abbiano ordinato al distributore in esclusiva nazionale, Distribook

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