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Basket

America senza chili

Stefano Olivari 11/08/2008

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La grande differenza tra la squadra americana presente a queste Olimpiadi e quella ribattezzata Dream Team del 1992 è soprattutto negli avversari. Nel 1992 i giocatori NBA delle altre nazionali erano pochissimi e quasi tutti marginali, ad eccezione di Drazen Petrovic (la sua Croazia arrivò seconda, Toni Kukoc non era ancora nella NBA) e Sarunas Marciulionis (la sua Lituania infatti arrivò terza). Allora la NBA era ancora un pianeta quasi irraggiungibile e composta quasi esclusivamente di americani. Oggi ci sono stelle NBA in quasi ogni squadra di rilievo. Pau Gasol, Dirk Nowitzki, Manu Ginobili, Yao Ming, poi ci sono altri giocatori NBA credibili come Luis Scola, Andres Nocioni, Yi Jianlian. E’ un altro mondo, non c’è timore reverenziale. Ginobili non vuole farsi le foto con Kobe Bryant perché l’ha già sfidato ad armi pari a casa sua. La differenza principale è questa: il Dream Team dominava su un mondo meno convinto di oggi di poter sfidare il grande colosso. Poi c’è un’altra differenza abissale: la potenza fisica della squadra del 1992 che aveva come centri Patrick Ewing e David Robinson, due dei più grandi della storia nel ruolo, e ali forti di straripante potenza atletica come Karl Malone e Charles Barkley. Oggi i giocatori americani sono soprattutto giocatori perimetrali. Il gioco è nelle mani di Kobe Bryant, LeBron James, Dwyane Wade. Ma gli esterni sono più vulnerabili, così in una partita secca può accadere di tutto. Questa nazionale americana ha tre soli lunghi veri: Dwight Howard, Chris Bosh e Carlos Boozer. Un centro, un’ala-centro leggera e un’ala forte sottodimensionata. Fa un po’ impressione. Carmelo Anthony e Tayshaun Prince devono giocare da ali forti. Nella NBA non potrebbero farlo, nel basket internazionale, con regole e arbitraggi internazionali sì, ma la mancanza di chili, centimetri e giocatori interni è palese.
Quando si parla del Dream Team del 1992 ci sono alcuni miti che andrebbero sconfitti. Intanto non era la squadra di Jordan, Magic e Bird, perché il bostoniano era a pochi giorni dalla fine della carriera, rotto, dolorante e impossibilitato a giocare davvero se non per qualche apparizione sporadica. Insomma Bird c’era ma non era Bird. Magic era reduce da un anno di inattività. Era Magic ma non era Magic. In più il dodicesimo uomo era Christian Laettner, che veniva da Duke e non c’entrava niente con quella squadra. Era solo un contentino dato alla NCAA, improvvisamente privata della nazionale. Infine John Stockton si infortunò durante le qualificazioni di Portland, recuperò ma solo verso la fine del torneo diventò il vero Stockton. Insomma, era uno squadrone ma non era al top, aveva diversi infortunati, giocatori a fine carriera. La grande impresa fu riuscire a vincere tutte le partite largamente senza mai chiamare un time-out. Se c’è un allenatore che ha lavorato meno di Chuck Daly per vincere un oro olimpico vorremmo sapere chi è.
L’Italia purtroppo non è coinvolta in queste Olimpiadi. Successe già dal 1988 al 1996 compreso, poi tornammo nel 2000 a Sydney e vincemmo un incredibile argento ad Atene. Oggi l’interesse italiano è monopolizzato da uno dei mercati più vivaci degli ultimi anni. Non si sa perché e per come, ma i nostri club sono stati protagonisti di alcuni dei colpi migliori sul mercato internazionale. Earl Boykins è uno dei quattro-cinque giocatori più rilevanti che abbiano lasciato la NBA per l’Europa. Ci sono lui, Josh Childress, Nenad Krstic, Carlos Arroyo, forse Boki Nachbar. Il baby fenomeno di Roma, Brandon Jennings, sulla cui efficacia ad un livello così alto, considerata l’età, nutriamo forti dubbi, ha fatto parlare dell’Italia e della Lottomatica anche in America (solo per Childress è stato consumato più inchiostro). Qyntell Woods (Fortitudo), Henry Domercant (Siena), Primoz Brezec (Roma), Jamie Arnold (Virtus Bologna) sono altri giocatori contesissimi che abbiamo aggiunto al campionato italiano in un’estate in cui l’unico giocatore davvero rilevante che abbiamo perso è stato Erazem Lorbek (da Roma al CSKA), visto che David Hawkins giocherà a Milano. Ovviamente senza considerare Danilo Gallinari.
Sulla fuga – molto relativa, perché alla fine è Childress l’unico giocatore che la NBA davvero avrebbe voluto trattenere, degli altri onestamente può fare a meno – di giocatori verso l’Europa, ha espresso una teoria molto interessante come al solito il vulcanico proprietario di Dallas, Mark Cuban. Nel suo blog ha detto in sostanza che se un giocatore vale certi soldi, i soldi glieli daranno. Non vengono dati ai giocatori che non si è sicuri valgano certe cifre. In questo caso per un club NBA è molto meglio che il giocatore vada in Europa piuttosto che vederlo rinforzare una concorrente diretta. In più considerare l’opzione europea percorribile permette ai club NBA di prospettare soluzioni di questo tipo ai propri giocatori giovani senza suscitare nervosismi particolari con il vantaggio di poterli osservare sotto pressione, mentre fanno esperienza, conservandone i diritti. Ma Cuban è andato oltre: secondo lui due o tre superstar in Europa farebbero la fortuna anche della NBA perché determinerebbero la voglia di costruire una vera coppa del mondo per club capace di generare soldi, interesse su scala mondiale. Secondo lui la concorrenza a livello mondiale è meglio del monopolio.

Claudio Limardi
claudio.limardi@gmail.com

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